In Venezia 1785

“CON LICENZA DEI SUPERIORI”

Opera censurata e completamente stravolta.

 

 

Andrea da Barberino

 

Guerrino detto il Meschino

 

 

 

Storia delle grandi imprese e vittorie riportate contro i Turchi

durante il Regno di Carlo Magno  Imperatore Re di Francia

 

 

PARTE QUINTA

 

 

Prodigiose avventure del Guerrino con l ‘incantatrice Alcina, dove si sentono le rivelazioni di moltissimi segreti, scoperte o trasformazioni di animali, e come la Fata, innamoratasi di lui, lo facesse fuggire, dirigendo il suo cammino verso Roma, la capitale del mondo.

 

 

CAPITOLO I

 

 

In quale modo il Guerrino, giunto ad Arezzo,

 domandasse notizie della fata Alcina.

 

 

Trovandosi il Guerrino in Arezzo, domandò ad alcune persone se fossero state nel caso di precisargli dove fosse il monte abitato dalla fata Alcina: e siccome, mentre ne ragionava con quelli, capitò un vecchio che dava attento ascolto alle sue parole, questi, chiesto di parlare, disse ch’egli possedeva un libricciolo nel quale trattavasi di quella famosa incantatrice, essendovi dentro narrato ciò che avvenne a due individui che s’eran mossi per andare a visitar la maga.

E sempre raccontando ciò che in quel libretto era scritto, il Guerrino seppe che uno di quei due era andato fino a quel luogo, essendogli all’ altro mancato il coraggio di proseguire il cammino.

Quello che aveva salito il detto monte raccontava di aver udito soffiar molti venti, dei quali è l’origine, e che tutto all’intorno vi abitano dei grandissimi e fieri Grifoni.

Più sotto alla montagna trovavasi la città di Norcia, e il Guerrino verso quella s’incamminò. Passate le montagne di Aspromonte, trovò un altro monte grandissimo, chiamato Apenione, e penetrato entro il  paese summenzionato, giunto ad un’osteria, vi alloggiò.

L’oste era un bell’uomo, di aspetto franco e libe-

 

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rale, il quale fe’ gran festa e buona accoglienza al Guerrino.

Non appena fu smontato da cavallo, costui gli domandò chi fosse, donde venisse e dove andasse, e il Guerrino gli replicò: "Sono di questo mondo, non so donde venga e non conosco ove vado"

Rispose l’oste al cavaliere:

"Nobile gentiluomo, v’avrei forse offeso chiedendovi ciò?"

"No davvero! "rispose il Guerrino.

"Ebbene, - soggiunse l’oste - se io vi ho domandato di quelle cose, l’ho fatto perché noi amiamo di sapere chi viene in paese."

Allora il Guerrino disse:

"Forse hai tu girato pel mondo?"

"Sì: sono stato in Soria, in Romania, in Spagna, in Inghilterra e in Fiandra, e ho girato e visitato quasi tutte le regioni di ponente. Ora, essendo tornato in patria, posso dire di aver provato il bene e il male, e di sapere come si debba vivere in società.  Tolsi moglie, dalla quale spero aver figli, ai quali insegnerò per  prima cosa di andar viaggiando pel mondo, perocché ritengo che chi non viaggia e osserva e vede tutto, non possa dirsi uomo!"

Sentendo il Guerrino così saggio ragionamento, gli chiese notizie dell’incantatrice Alcina.

L’oste rispose che quella fata trovavasi nelle montagne vicine, e che egli non vi era mai voluto andare; anzi

consigliava il Guerrino a dismetterne il pensiero, caso mai avesse avuto tal voglia, giacché per sei miglia distante dalla di lei abitazione, niuno si azzardava di mover un passo.

Gli disse inoltre che prima di arrivarvi v’era una specie di fortezza e più in là un romitorio, ove alcuni eremiti stavano ivi a sconsigliare e vietare il passo a chi avrebbe potuto recarvisi.

"Costì, - disse l’oste - sono grandi stormi di uccellacci e orribili falchi e grifoni, i quali, insieme a molt’altre  fiere, impediscono a chicchessia di proce-

 

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der oltre: tanto è il terrore che domina per quella regione orrida e

disabitata.

Onde, - soggiungeva poi - vi sconsiglio assolutamente di andarvi, perocché non uno, di cento che vi si recassero, tornerebbe in qua."

Ma il Guerrino, sempre fermo nel suo proposito, rispose: "Bene, bene, ho capito e non ne parliamo più, per ora."

 

 

CAPITOLO II

 

 

Come il Guerrino, parlando con dei forestieri del

suo disegno di andar dall' incantatrice, ne fosse da

quelli distolto, narrandogli delle molte paure e

pericoli che avrebbe incontrato, facendolo.

 

 

Il mattino di poi , avendo il Guerrino domandato all’oste se per caso avesse nessun famiglio da mandar  seco lui per la città, quei gli disse che volentieri gli avrebbe dato suo figlio, col quale si recò alla chiesa più prossima per udirvi la santa messa. Essendo poi uscito nel mezzo della piazza, il Guerrino ascoltò che alcuni forestieri parlavano tra loro di certi paesi, raccontando molte cose particolari da essi vedute.

Accostatosi al gruppo, egli fece in modo di far cadere il discorso sopra le incantagioni e le stregonerie, ed ora parlando di una cosa, ora dell’altra, disse uno di quelli:

"Messeri, ho sentito dire taluno che in queste vicinanze trovasi una incantatrice, per nome Alcina, la quale tiene per fede che Dio comunicasse seco, quando s'incarnò nel grembo della Vergine Maria: onde per questa falsa ed empia credenza ella si dannò l’anima, e fu giudicata per strega a motivo di sì assurda dottrina."

Il Guerrino, sentendo questo, così domandò:

"Or come può essere vero questo, e chi lo asserisce per tale?"

E un vecchio, che aveva pur esso prestata attenzione a quei discorsi, replicò:

 

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"Nobile cavaliere, a che porre in dubbio ciò che ha detto costui? Egli ha detto il vero ed io posso assicurarvi che questa famosa fata sta non molto lontano di qua, avendolo sentito affermare da tre giovani che vi si sono recati. Due però ritornarono, mentre il terzo di essi non fu più visto."

"Ebbene, costoro dunque videro la incantatrice?" chiese ancora il Guerrino.

E quel vecchio soggiunse:

"Non so: dissero essere stati presso un romitorio distante due miglia di qui, e nelle cui vicinanze vi sono moltissime cose orride e spaventose assai. Costì parlarono a certi eremiti che v’erano, i quali fortemente li scongiurarono a non volere andare più innanzi. Essi sono possessori di una scrittura, nella quale è narrato di un certo messer Lionello di Francia, il quale, pel grande amore che portava ad una damigella, si era vantato di andar dalla fata: ma che per quanti sforzi avesse fatto per avvicinarsi al luogo dove quella si

trovava, non vi riuscì, tanto per grandi venti che spiravano furiosamente all’intorno, quanto pei grandi ostacoli di pietre, rovine, burroni, sbalzi, precipizi e vallate che qua e là intercettavano ai passanti il cammino.

Ivi osservò quell’ardito, che una gran montagna, fessa in due lati, precludeva quasi il passo, e in mezzo alla quale era necessario pur mettere il piede se uno voleva giungere alla meta prefissa."

Compiuto costui il suo dire, al Guerrino parve convenevole ringraziarlo assai, e lo avrebbe ben volentieri condotto seco all’albergo per fargli onore, se quegli, con bel garbo, non vi si fosse rifiutato.

 

 

CAPITOLO III

 

 

In qual modo l’oste confortasse il Guerrino, il

 quale, confessatosi e comunicatosi, dispose tutto

l’occorrente che gli abbisognava

per andare dalla fata.

 

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Il Guerrino, avute tutte queste informazioni, n’era rimasto assai contento: nondimeno se ne tornò all’albergo, andò in camera, e ivi rimase alcun poco tutto mesto e sgomento.

L’oste, che aveva nome Annello, vedendo il messere così pensieroso, ne sentì compassione; e siccome fino da principio vide essere assai gentil persona, sul subito non volle dirgli niente, e si limitò ad apparecchiar

l’occorrente pel pasto.

Giunta però la sera, prese a confortarlo alquanto dicendogli:

"Gentiluomo dabbene, per qual cagione dacché foste qui alloggiato, siete rimasto così serio e pensoso?"

E il Guerrino, rispondendogli, disse:

"Per la mia fede, se io potessi essere certo che ti volessi mantenere il segreto, forse tel direi!"

Annello gli rispose:

" Se non è che per la mia fede, non vi sarebbe gran cosa al mondo che io non mantenessi celata ad ognuno. "

"Ebbene, giuralo. " replicò il Guerrino.

E quello, giuratolo con sacramento, pregò il nobile campione a volersi confidare seco dei suoi affanni.

Il Guerrino allora cominciò a dirgli tutto, dal principio cioè in cui si trovò schiavo di Epidonio, e tutto quanto gli era intravvenuto a Costantinopoli e la cagione per cui aveva fino allora viaggiato pel mondo, i pericoli corsi, le cose vedute, le battaglie vinte, insomma tutto per ordine gli raccontò, non escluso ciò che aveva sentito dire quella mattina stessa, nella maggior piazza della città.

L’oste, all’udire siffatte avventure e vicissitudini, per commozione piangeva assai: ma alla fine, dando tregua alle lacrime, così gli disse: "Messere, comanda pure quel che vuoi, che io, per quanto posso, tutto per te son pronto a fare."

Il Guerrino in tal modo gli rispose: "Senti, io ti lascerò in custodia fino al mio ritorno il cavallo e le mie armi, ed insieme a queste cose, tanto danaro in oro e argento, da poter frati le spese

 

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 per due anni intieri. Ti raccomando soprattutto di voler tenere bene il mio nobile destriero, affidandolo alle mani di qualche  famiglia che ne prenda cura, governandolo in quello che gli occorre. Lo farai tu? "

L’oste si profferse volenteroso a mantenere le richieste del Guerrino: e questo non si sa bene se lo facesse per suo buon cuore, o per la intenzione di vedersi padrone di tutto, sperando, forse in sé, che il cavaliere  non ritornasse dalla pericolosa impresa che si accingeva a intraprendere.

Il Guerrino si rallegrò molto di questa cosa, indi chiese all’oste:

"Vorrei, se se potesse, avere una guida che mi accompagnasse fino al romitorio.-

Ed Annello gli replicò:

"Altri che me non sarà la tua guida fin là, e io solo prendo impegno di accompagnarti. Però se tu vuoi ascoltare un ottimo consiglio, dissuaditi dal recarti colà, essendovi grandi perigli da incontrare. "

Il Guerrino soggiunse:

-         Questo non sarà mai, imperocché non posso fare a meno di andare

a rintracciar mio padre e mia madre.

Annello, sempre consigliando, rispose: " Ho sentito dire che colui che va fin là non ne esce più vivo: però, se tu vuoi andarci in ogni modo, io ti prometto di attenderti per tre anni, anziché due, come mi hai detto. "

Il Guerrino l’accettò per sua guida e l’oste promise di seguirlo fino al romitorio: indi, abbandonando ogni

altro pensiero, disposero il tutto per recarvisi la mattina di poi.

Giunto l’indomani, il Guerrino consegnò ad Annello le armi e il cavallo, non che molto argento e oro; però l’oste, informato da taluni di ciò che importava molto che recassero seco, fece acquisto di una quantità di

candele di cera, non che di una tasca contenente esca, pietra e acciarino.

 

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CAPITOLO IV

 

Come il Guerrino e Annello si ponessero in cammi-

no e dopo giunti al castello si dirigessero al

romitorio, dove, da quei romiti, ebbero consiglio

di non procedere innanzi.

 

 

Dopo aver posto in ordine l’occorrente pel viaggio, giunto il mattino, l’oste prese seco alcuni panni, del formaggio e una grossa fiasca di vino, apparecchiando al tempo stesso due buone cavalcature.

Fatta colazione montarono ambedue a cavallo, dirigendosi verso la rocca, ove sapevano esservi l’incantatrice.

Giunti al castello, che trovavasi distante da Norcia circa sei miglia, smontarono, presentandosi ad un ufficiale, il quale non appena li vide, cominciò aspramente a rimproverarmi, e tanto più il Guerrino, a cui

disse che andava incontro a molti guai, e, procedendo oltre, sarebbe scomunicato: senza contare che si sarebbe dannata l’anima, con la perdita infallibile del corpo. Tutto quanto poteva dire per distoglierlo da siffatto proponimento, lo disse: ma sempre invano, che il cavaliere non gli dava ascolto.

Allora quegli, viepiù infervorato nella propria idea, gli disse:

" Deh! non fate, o gentiluomo, che una persona di considerazione come voi sembrate, abbia a perdersi così miseramente! Come mai vi è venuto in idea di andare, dove non si recarono finora che gente malvagia, infedele e ribelle? "

E rivolgendosi all’oste, così proseguì il discorso:

" E tu, messere Annello, come mai non ti vergogni di consigliano in tal guisa, ed hai anche la temerità di accompagnarlo verso la sua perdizione? Davvero che ambedue me sembrate tutt’altra gente da quello che

veramente siete, e io considero essere in voi meno bontà e più pazzia, di quello che non sembrate avere."

 

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A tali rampogne il Guerrino conobbe che costui non parlava per ira o per malevolenza, ma lo faceva per buon cuore, o coll’animo volenteroso di consigliarlo in cosa utile e benefica.

Per questo, anziché adirarsi, così prese a dire a quell’ufficiale:

" Gentiluomo, voi certamente parlate con buona intenzione, ed io accetto i vostri saggi suggerimenti, come un figlio rispettoso ascolta i consigli di un padre amorevole. Però sappiate che io non vado dalla fata per nessun fine disonesto e malvagio, o per commettere nessun fallo e peccato: ma mi vi reco per aver mezzo da essa di ritrovare la mia prosapia e rintracciare  i miei amati genitori, essendo di ciò stato accertato da taluni indovini, i quali mi dichiararono che solo questa incantatrice sarebbe stata al caso di sapermelo dire.

 L’anima mia dunque non andrà perduta come dici, né il mio corpo perirà in questa ventura. Sappi che io, per ritrovare il padre mio, finora non ho trascurato nulla, ed ho viaggiato a tale intento pel mondo, visitando l’Asia, l’Africa, la Barberia, l’Indie, e vidi Costantinopoli, visitando perfino gli Alberi del Sole e della Luna. Da tutte le mie ricerche è scaturito che io debba condurmi presso questa maga Alcina, essendo essa l’unica persona che possa pormi sulla traccia di quello che tanto ardentemente vado cercando. Ora di ciò vorresti tu persistere a sconsigliarmi? "

A queste parole l’ufficiale tacque, non sapendo che cosa dire per convincer colui che gli aveva esposto cosiffatte giustissime ragioni.

Partitisi di là, cominciarono a salir su per l’Alpi, e penarono gran fatica a traversare, durante molte miglia, quei luoghi aspri e selvatici.

Anzi, le più volte il terreno, per esser tanto malagevole, li costrinse a dover andarsene a piedi menando a mano il rispettivo cavallo.

 Venuta finalmente la sera, si ritrovarono nel bel mezzo di due cime di monti, tra’ i quali v’era il romitorio, cui non si poteva fare a meno di toccare,

 

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volendo procedere innanzi.

Il sentiero, l’unico che si trovava in quel luogo dirupato e scosceso, era strettissimo, fatto a guisa di schiena di storione, lungo un miglio e largo appena un braccio: onde, per passarvi sopra, occorreva di far molta attenzione, essendovi il pericolo di precipitare al basso.

Per meglio traversarlo lavorarono di mani e di piedi, ora attenendosi a qualche cespuglio, ora aggrappandosi a delle cima di sassi e di roveti.

Finalmente giunsero alla porta del locale, trafelati e stanchi, e, battuto all’ingresso, sentirono di dentro la voce di quei romiti che diceva:

" Gesù vi aiuti e vi soccorra! "

Ed altre voci tennero tosto dietro a quella, esclamando con gran devozione:

"Deus in adjiutorium meum intende" con quel che segue del restante del salmo. E così cantando vennero ad aprire tre romiti, e ciascuno di essi aveva in mano una crocetta.

Appena veduti i due visitatori, li scongiurarono subito a voler tornare indietro per 1’ amor di Dio, dicendo loro: 

- Tornate indietro, o maledetti, che siete animati dal sentimento delle vanità e delle dannazioni!

Perché volete andare dove perdereste certamente anima e corpo? "

Il Guerrino, sentendo dir questo, rispose:

 " Padri reverendissimi, non dite così, perocché io solo son quello che intendo procedere dove ho destinato d’andare. E non vi vado, credetemelo, né per vanità, né per lussuria, né per disperazione dell’ anima mia. Solo m’è d’uopo sapere ove trovasi la mia generazione, e conoscere chi siano i miei genitori, e in qual parte posso giungere a rintracciare il padre mio e il paese natìo.

Ho cercato invano per tutto il mondo, e finora non potei saperlo. Onde, essendomi stato detto che solo l’incantatrice avrebbe potuto appagare i miei desideri, così per quest’unico scopo, e non per altro motivo, mi sono mosso, ponendomi in viaggio fin qui, con la speranza

 

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 di raggiungere l’intento. "

Quei romiti ascoltarono attenti il suo dire, quindi serrarono l’uscio, stando un breve tratto di tempo al di dentro per consigliarsi.

Poi, aperta di nuovo la porta, invitarono il Guerrino col compagno e le cavalcature ad entra nel romitorio.

L’oste però disse loro:

" Padri, non crediate che io voglia qui trattenermi: io non ho fatto altro che accompagnare durante il cammino questo cavaliere, e però ora che son giunto qui, voglio tornare dove io sono partito. "

Il Guerrino raccontò allora tutte le su avventure, narrando per filo e per segno dov’era andato, ciò che aveva visto e quello che aveva fatto, nulla dimenticando: onde quei tre romiti, per la commozione, si diedero a piangere e a lacrimare, pregandolo tuttavia a rinunziare a quella impresa pericolosa, dicendogli che sperasse e confidasse in Dio, piuttosto che rischia la vita col pericolo di dannarsi eternamente all’inferno.

" Deh! tornate indietro, date ascolto a noi, e non trasgredite a ciò che il Signore per nostro mezzo vi fa sapere. Facendo diversamente ve ne avverranno dei guai , e forse, ma sarà tardi, vi pentirete di non averci

ascoltati. "

Il Guerrino ascoltò paziente tutto quanto quei buoni eremiti gli andavano dicendo: ma sempre più tenace   ne’ suoi proponimenti, rispose che sarebbe andato in tutti i modi , pregandoli a non volerglielo più oltre impedire.

 

 

CAPITOLO V

 

In quale modo i romiti insegnassero al Guerrino come

si doveva regolare andando avanti, ragguaglian-

dolo del tempo che si poteva trattenere dalla fata,

e inculcandogli di voler tenere bene in mente Gesù

Cristo, per non rischiare di perder l’anima.

 

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I romiti, udendo le parole del Guerrino, benedissero grandemente l’alta potenza di Dio, e riuniti in consiglio avvertirono ai modi di regolare l’andata di lui presso la temuta maliarda.

Uno di essi, che pareva esserne il capo, si espresse in questi termini:

" Nobile gentiluomo, perché sei disposto d’andare a tutti i costi, noi ti daremo qualche ammaestramento valevole a farti salvo. Perciò ti preghiamo di voler tenere bene in memoria ciò che ti diremo.

Prima di tutto, se vorrai esser sicuro della tua salvazione, dovrai tener sempre presente Gesù Cristo, pensando soltanto a Lui, colla mente e col cuore.

Non dimenticare perciò d’invocare il suo santo nome, qualunque sia la cosa che tu faccia e dica. Inoltre armati ognora delle quattro virtù cardinali che sono: Fortezza, Giustizia, Temperanza e Prudenza, non che di quelle tre teologali, vale a dire: Fede, Speranza e Carità.

Guardati dai peccati e in special modo evita quelli mortali.

La superbia stia lungi da te, come pure l’ira, l’accidia e l’avarizia; invidia non ne tenere con chicchessia, e sta’ lontano dalla gola e dalla lussuria, che ti tenteranno più di ogni altra colpa mondana.

Qualunque siano le lusinghe che ti si faranno, evitale scrupolosamente, non lasciandoti vincere né da carezze, né da moine, né da promissioni.

Qualunque atto disonesto ti sia in odio, e allontanati ognora da ciò che può avere apparenza di piacere e di godimento carnale.

Se così farai e ti adopererai, noi ti accertiamo della tua salvezza, e potrai confidare di far ritorno dalla perigliosa intrapresa, senza provarne nocumento, o dolore o pena. In caso diverso chi sa mai quello che dite potrebbe accadere!"

Il Guerrino promise di attenersi ai loro consigli; indi domandò a quello che gli aveva fino allora parlato:

" Padre mio, se giungo a penetrare fin là, quanto tempo mi dite che possa trattenermi senza pericolo?

 

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Il romito rispose:

" Chi vi entra, vi ha da stare fino a tanto che il sole non dia volta. "

Il Guerrino, sentendo questo, replicò:

" Dunque un giorno solo, non è vero? "

" Ma no! - disse il romito. - Per un volger intiero del sole, intendesi trecentosessantacinque giorni, ossia un anno compiuto, cioè fino a che l’astro non abbia percorso nel cielo i dodici segni zodiacali, vale a dire:

Ariete, Toro, Gemelli, Cancro, Leone, Vergine, Libbra, Scorpione, Sagittario, Capricorno, Pesci e Acquario.

Or tieni dunque in memoria questo: che cioè quando il sole avrà terminato il suo giro, devi procurare di uscire dal punto stesso in cui sei entrato, diversamente saresti perduto, rimanendo nell’incanto in cui altri, prima dite, caddero colà. Tu, dunque, vedrai che molte belle femmine geniali e incantatrici ti circonderanno, in guida da farti scordare il segno della partenza. Cerca pertanto di non ingannar te stesso, e tieni bene in memoria tutto, senza lasciarti vincere da qualsiasi ostacolo, o difficoltà. Vedrai che quando sarà giunta l’ora e che tu ricorderai ad esse di dovertene uscire, niuno te lo impedirà, ma anzi sarai da loro stesse accompagnato fino al limitare della porta, donde sei prima entrato. "

Il Guerrino, sentendo queste cose, così disse:

" Padre, datemi la vostra santa benedizione, con la quale spero di tornar presto sano e salvo e in grazia del Nostro Signore Iddio. "

Indi si confessò e comunicò, invitando quei buoni eremiti a voler pregare per lui.

Abbracciato finalmente Annello, gli raccomandò ancora una volta di voler tenere in buona custodia il suo cavallo, non che le armi, soggiungendogli:

" Per quello che riguarda il danaro fai pure il tuo voler, purché il restante sia ben guardato e pronto ognora al mio comando."

Cintosi della spada , il Guerrino fe’ provvisione di pane e di vino, e postosi in tasca tutto ciò che poteva

 

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 occorrergli per accendere il fuoco, lasciando ognuno lacrimoso e piangente, s’incamminò pel suo viaggio dicendo:

" Pregate tutti che Iddio mi faccia ritornare sano e salvo! "

Quei romiti lo accompagnarono per circa un tratto di quaranta braccia, e nel lasciarsi uno di essi ripeté a Guerrino: " Tieni in mente Gesù Cristo, affinché ti aiuti! "

 

 

 

CAPITOLO VI

 

Come il Guerrino trovasse le Alpi, ch’erano molto

tetre ed oscure, e nelle quali dormì una notte,

recandosi il mattino di poi all’ingresso di una delle

quattro caverne.

 

 

Lasciato ch’ebbe il Guerrino i tre romiti, poco oltre il cammino si trovò al fine di quelle montagne ov’era il romitorio.

Ivi cominciò a scorgere dinanzi a sé un sentiero sassoso, dirupato, con grandi e profonde valli nell’interno, e oltre a ciò terribili precipizi dei quali scorgeva il fondo; si vedeva qua e là dinanzi e di dietro circondato da sommità altissime, le cui punte acuminate si perdevano nelle nuvole.

La forma del monte che aveva preso a salire era quella di un pesce marino, detto Aschi, il quale abita le profonde regioni dell’oceano.

Il poggio era poi sorretto da un lato da un immenso barbacane di muro, dello spessore di un braccio. La luce penetrava appena tramezzo quegli scoscesi dirupi, e non vi si vedevano che pietre e massi, senz’ombra di un filo d’erba, o di un ramo d’albero. Ivi non si può entrare che durante un solo periodo dell’anno, vale a dire cioè quando il sole trovasi nei punti cardinali del Cancro, dei Gemelli, o del Leone.

Quando vi andò il Guerrino il segno era quello del Cancro, al quale ei pose mente osservando bene il

 

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luogo dove si trovava, e il tragitto che gli conveniva di percorrere.

Stando così soprappensiero, si sentiva dubitoso alquanto, non sapendosi decidere se dovesse o no andare innanzi.

In parte il cuore lo consigliava a procedere oltre, e in parte gli suggeriva di tornare indietro.

Ripreso animo a proseguire impavido la via, superò se stesso nelle fatiche, insanguinandosi mani e piedi per salir su, tanto era aspro e malagevole il tragitto per giungere alla cima.

Finalmente, essendovi giunto, si guardò attorno sbigottito, e sentendo pietà di sé, esclamò tutto mesto e dolente:

" Ahimé lasso! Che vado io cercando? -E pregò il Signore Iddio e disse per tre volte consecutive:

" Gesù Cristo, figlio del Cielo, aiutami! "

Poi, guardando in alto, gli parve che quel monte toccasse la volta del firmamento.

Indi, osservando l’aspro cammino che gli conveniva ancora di percorrere, gli parve assai più tremendo e difficile di quello fatto; imperocché altra montagna gli sovrastava, divisa per metà, e tra le cui rocce v’era appena un piccolo sentiero sassoso da dover camminare.

Messosi pertanto in cammino, notò che l’oscurità si faceva maggiore, per essere quella viuzza appena appena aperta allo spiraglio della luce.

Il camminarvi sopra gli parve poi alquanto difficile, a motivo dei sassi e delle pietre, che sotto il piede e di tratto in tratto sdrucciolavano, facendolo scivolare ad ogni passo, col pericolo di precipitare nel profondo di quei burroni.

Giunto a un certo luogo dove il terreno sembrava più spazioso, fatto cioè a guisa di campo, si trovò in una specie di piazza quadrata, che da ogni lato aveva rive altissime, e di faccia aveva un altro monte assai ripido ed altissimo.

Qui, riposandosi alquanto, il Guerrino gridò ad

 

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 alta voce:

" O maledetto Dragone, quanto sei brutto e laido, con quelle tue ali terribili ed orrende! "

E questo diceva, perché gli pareva che quel monte somigliasse a uno spaventevole e fiero Drago, le cui estremità prendeva per due ali immense. Ciò che aveva davanti figurava la testa, e il cammino da lui percorso, la coda.

Fattosi animo andò innanzi, finché si vide presso l’entrata di quattro caverne oscure, dove si fermò prima di procedere oltre, a motivo che quel poco di sole che vedeva, stava per scomparire dall’orizzonte.

Postosi a giacere sopra un mucchio di sassi, ivi gli convenne per quella notte dormire, e la mattina appena scorse un po’ di bagliore, si alzò, e postosi in ginocchio recitò divotamente i sette Salmi penitenziali, con molte altre orazioni.

 

Segnatosi poscia il volto, accese una di quelle candele che aveva seco, e tenendo con l’altra mano impugnata la spada, entrò per una di quelle caverne, le quali divenivano una sola al centro. Non mancò il Guerrino, giusta il suggerimento datogli dai romiti, d’invocare per tre volte di seguito il Santo Nome di Dio dicendo:

 

" Gesù Cristo Nazzareno, aiutami! "

 

 

CAPITOLO VII

 

Come il Guerrino, introdottosi per la caverna ritrovasse Macco in forma di grosso serpente, col quale parlò, poi giungesse alla porta d’ingresso della fata Alcina.

 

A misura che il Guerrino s’introduceva per entro i recinti tenebrosi di quella caverna, e viepiù aveva bisogno di servirsi di ciò che gli era necessario a far luce in quella spaventosa oscurità.

 

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Le vie tortuose che v’erano gli parvero talmente moltiplicarsi, che non seppe più come andare avanti: ed ora gli pareva di trovarsi smarrito, ora in una specie di labirinto senza uscita, ora tornato indietro per dov’era venuto.

Le candele, che di mano in mano accendeva, stavano già per consumarsi tutte, quando, vistosi in cattiva condizione, ricorse di nuovo all’aiuto divino, invocando incessantemente il Signore, e dicendo con voce di  preghiera a Gesù Cristo: "Salvum me fac, Domine! ".

 

Visto li presso un sentiero scosceso che andava inoltrandosi per l’ingiù, disse tra sé:

 

" Come sarebbe mai possibile, che uno sprovvisto di lume, potesse qui camminare, e, al caso, tornarsene indietro? "

 

E sempre camminando per un terreno sassoso e sdrucciolevole, giunse ad un punto ove sentì come il rimbombo di una cascata d’acqua che piombasse dall’alto.

 

Stanco per la perfida strada percorsa, si pose a sedere su di una pietra, dandosi a morsicare un po’ di pane e bevere qualche sorsata di vino, onde non restare affatto sfinito nelle proprie forze.

 

Sentendosi poi volontà di prender sonno, smorzò la candela e si addormentò pere breve tempo: indi  svegliandosi riaccese, con l’occorrente che aveva, il lume, e lavatosi alquanto il viso con l’acqua fresca, fattosi di nuovo il segno della croce, orò a bassa voce, dicendo:

 

" Signore Iddio, mi raccomando a te! "

 

Passata quell’acqua, pose a un tratto i piedi su di un involucro smisurato e molle, il quale, movendosi,  poco vi mancò che non lo facesse cadere in terra.

 

Quand’ebbe passato quell’involucro morbido e glutinoso, sentì dirsi:

 

" Chi sei tu che mi hai calpestato, passandomi sopra? Pare a te che io sia poco dannato, a star qui in questo luogo umido ed oscuro? "

 

Al Guerrino, sentendo tal voce, gli si rizzarono

 

 

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 pel terrore i capelli: ma voltandosi presto, onde non far  mostra di aver avuto paura, colla spada in pugno, domandò alla voce:

 

" Chiedo io a te, piuttosto, chi sei, avendomi or ora attraversata la strada. Per qual cagione ti trovi costì? "

 

L’altro rispose:

 

" Perché io fui giudicato e condannato a tal pena. D’onde sei tu, e qual nome porti? " domandò ancora il Guerrino.

 

E quello, rispondendo, disse:

 

" Tu vorresti, prima di rispondere alle mie domande, sapere i fatti miei: ma così non sarà. Dì piuttosto te, chi sei, e che cosa vieni a fare in questi luoghi?"

 

Allora il Guerrino, prima di replicare, abbassò la candela volendo co’ propri occhi vedere da chi si   dipartisse quella voce: e non fu poca maraviglia la sua, osservando con terrore un lungo e grosso serpente, della misura di quattro braccia circa, il quale era così brutto e mostruoso, da incutere altrui molto spavento.

 

Osservandolo, il Guerrino così disse:

 

" Sappi, o deforme ad orrendo animale, che io non son cavaliere di ventura, e mi trovo qui per andare in traccia della fata Alcina.

 

- Quel mostruoso serpente rispose in tal modo al Guerrino:

 

- Sappi che il mio nome è Macco, e che per avere, fino da piccino, fatto male al mio prossimo, fui in tal guisa dannato a stare. La mia vita fu una continua serie di scelleraggini: non volli mai imparare nessuna virtù, e di durar fatica non ne volli sapere. Portando invidia a ogni cosa creata, e datomi alla pigrizia, mi trovai ingolfato in ogni vizio e peccato, tantoché ognuno m’aveva in odio, ed ero divenuto nemico a me stesso. Stanco di vivere così malamente tra la noia, le colpe e i rimorsi, saputo che era qua questa fata, mi

decisi a rivolgermi a lei per vedere se avesse saputo o potuto trovare qualche rimedio alla mia

 

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 sciagurata condizione. Giunto a una porta, che trovasi distante da qui un centinaio di braccia, battei forte a quella, e mi fu risposto che stante la mia gran cattiveria, non avrei potuto entrar dentro. Udito questo mi diedi a imprecare contro il cielo e la terra, maledicendo tutte le cose create, e bestemmiando Dio, la Vergine e i Santi. Non avendo  terminato quelle frasi di maledizione, che tosto mi vidi cangiato in un orrido serpente, e quale divenni allora tu mi vedi anche adesso, essendo stato condannato a viver così fino al giorno del giudizio finale. -

 

Il Guerrino, ascoltato questo ragionamento, così disse al mostro:

 

- Se io pregassi Iddio per te, son certo che farei un gran peccato, perocché non credo che più giusta punizione tu potessi avere di quella che ti hanno data. Visto l’agire del corpo tuo, chi sa forse se l’anima un giorno sarà riscattata! -

 

Macco, a tale risposta, soggiunse:

 

- Malnato te, che cosa mi dici! Vorrei che tu, pel male che mi vuoi, divenissi tale, come me adesso. Credi che qui non son solo, ed altri cento pel mondo ve ne sono sparsi, il cui stato si eguaglia al mio. Spero però che se tu persisterai nel volere andare dalla fata, male eguale te ne incolga! -

 

Il Guerrino replicò:

 

- Taci, miserabile, non vedi che tu sei presso a morte eterna! -

 

- Peggio, - rispose Macco - peggio ancora, o sciagurato! Io sono più che morto, per quello che puoi vedere.-

 

- Ebbene che tu rimanga sempre così, senza verun refrigerio di sorta! -

 

E partitosi il Guerrino da lui, andò ancora innanzi e tosto trovò una porta di metallo, la quale da ogni lato aveva scolpito una figura di demonio che pareva viva, tanto terribile n’era l’aspetto!

 

Quelle due figure avevano ciascuna una carta in mano, nella quale stava scritto:

 

"Chi entra qua dentro e che passa un anno senza

 

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 cercare di uscirne, non morrà fino al dì del giudizio, alla quale epoca perderà anima e corpo e sarà eternamente dannato!".

 

Il Guerrino, leggendo coteste tremende parole, si fece ancora il segno della Santa Croce; poi, invocando per tre volte il santissimo Nome di Gesù Nazzareno, e a lui raccomandandosi, per più volte bussò a quella porta, la quale, alla fine, gli venne aperta da tre damigelle.

 

 

CAPITOLO VIII

 

 

Come il Guerrino fosse accettato con molta festa e benevolenza dalla fata Alcina, che gli mostrò tutto il suo tesoro, e dopo aver con esso pranzato, lo menasse seco a passeggiare nel giardino degl’incanti.

 

 

Quando al Guerrino fu aperto l’uscio, erano appunto le dodici precise della metà del mese di giugno.

 

Quelle damigelle, vedendolo, gli fecero molta festa, ammirandone il giovine e fiero aspetto.

 

Esse erano molto belle e assai bene ornate addosso, tantoché lingua umana

non potrebbe narrare le particolarità della leggiadria e della magnificenza del loro abbigliamento.

 

Appena entrato, gli fu tosto serrata la porta dietro, e una di quelle, accennando a lui, disse con lusinghiero accento, nel quale trapelava la falsità del pensiero col labbro:

 

- Ben venga il gentil cavaliere da noi, che certamente sarà egli il nostro signore! -

 

Egli, tra sé, disse allora:

 

- Vedrai che tu t’inganni, mia cara, e che avrai errato nei tuoi giudizi! -Intanto l’una appresso l’altra si affrettavano a togliergli ciò che aveva indosso: una gli levò la fiasca del vino, un’altra la saccoccia con le

candele e

 

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 l’acciarino, e la terza la spada, riponendogliela però nel fodero.

 

Poi presolo per mano lo condussero seco, e passando per un’altra porta, giunsero ad un incantevole  giardino, dov’era una vaghissima loggia tutta storiata, entro la quale stavano schierate altre cinquanta damigelle, una più graziosa e avvenente dell’altra, vestite di ricchissimi abiti, sfolgoranti di oro e di gemme.

 

Tutte, nel vederlo giungere, si rivolsero a lui, ed egli ebbe agio di osservare che nel mezzo di esse v’era una matrona più bella di tutte, vestita con una ricchezza tale, da non si veder la compagna.

 

Vedendolo sorpreso dallo spettacolo che gli si parava dinanzi, una di quelle giovani, rivolgendogli la parola, gli disse:

 

Messere, cotesta che voi vedete è la nostra signora, la gran fata Alcina. -Allora egli le si mosse incontro, ed ella, andata a riscontrano, quando furono a faccia a faccia, il Guerrino le s’inginocchiò, mentre la fata gli s’inchinava con rispetto.

 

Indi, presolo per mano, gli disse:

 

-Ben venga pure, il nobile cavalier Guerrino, nella mia magione.-

 

E salutandola, quei le rispose:

 

- Quella virtù in che avete maggiore speranza, vi aiuti, o signora!

 

- E mentre parlavano, ebbe occasione di osservare che quella sforzavasi a fare il più bel sembiante, tanta era la vaghezza e le dolci parole e gli atti cerimoniosi e geniali coi quali accompagnava le sue parole.

 

Certo, uno meno scaltro e meno avvisato di lui, non avrebbe potuto resistere agl’incanti de’ suoi modi, e avrebbe ceduto alla tentazione di sì grata accoglienza!

 

Il colorito aveva soavissimo, le forme incantevoli, il linguaggio affascinante, che ebbe a porlo fuori di sé, tanto gli pareva trovarsi come un rovo smarrito,

 

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fra varie rose lussuriose.

 

Iddio però gli donò tanta grazia e tanta forza da rammentargli lo scopo per cui era andato colà, e gli vennero in memoria assai opportunamente le raccomandazioni ed i consigli avuti dai romiti, prima d’incamminarsi in quel luogo.

Perciò, fatta breve e mentale orazione, disse per tre volte:

 

- Signore Dio, aiutatemi voi! E voi, Gesù Cristo, suo Divin figliuolo, liberatemi da qualsiasi incantagione. -

 

Dopo pronunziato questa triplice giaculatoria, ritornò tutto in sé stesso, ed ogni falso desiderio e volontà si dipartirono dal cuore e dall’animo suo.

 

Essa allora, per fargli conoscere che sapeva chi fosse e ciò che avesse fino allora operato, gli raccontò ad una ad una tutte le pene da lui sofferte fin dal momento che Alessandro l’aveva liberato dalla schiavitù, e condottolo presso l’imperatore suo padre, narrandogli a parte a parte tutte le vicissitudini provate, le battaglie sostenute e le traversie incontrate; insomma, tutte le particolarità del suo lungo e penoso viaggio.

E giunta al punto di raccontargli ciò che sapeva circa le grandi ricchezze possedute dal prete Gianni, così  soggiunse:

 

- Io voglio che tu veda co’ tuoi propri occhi se io possegga altrettanto tesoro come quel sacerdote. -

 

E menatolo nella camera di un gran palazzo che vi era li presso, mostrò al Guerrino tanto oro e argento, perle e gioie preziosissime, che se non fossero state false, sarebbero bastate a ricomprare metà del mondo intero.

 

Introdottolo in una splendida sala dov'era apparecchiata una sontuosa imbandigione, quella, con le altre damigelle, lo invitarono a sedersi tra loro e mangiare ciò che a mano a mano veniva da alcune fanciulle vaghissime portato davanti.

 

Il lusso e la squisitezza dei cibi e dei vini lo abbagliarono, tanto era la meraviglia che destava l’intiero apparecchio di quel superbo locale: ma però

 

 

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 ei rimase guardingo, e non si lasciò mai lusingare del tutto dalle illusorie tentazioni di quelle donne.

 

Quand’ebbe mangiato e bevuto, venne condotto nel prossimo giardino ch’era un paradiso a vedersi, ed ivi gli furono fatti gustare i frutti più deliziosi che fossero al mondo, i quali erano tanti e tanti, da saziare ogni voglia, perché ve n'erano di quelli che nascono in ogni stagione.

 

Anzi, per tutte coteste maraviglie, egli si sentì ancor più animato dalla maggior fermezza, e seppe in tutto e  per tutto distinguere quanto falsi e mendaci fossero quegli incanti, non certo, per allora, sufficienti a farlo trascendere nella via del peccato.

 

 

 

CAPITOLO IX

 

In qual modo la fata insegnasse al Guerrino il modo di peccare, e gli raccontasse in qual maniera era stato portato fino a Costantinopoli.

 

Avendo la fata fatti molti ragionamenti col Guerrino, lo invitò a seguirla di nuovo nel palazzo, disponendo che lungo il tragitto tre di quelle damigelle gli suonassero attorno l’arpa, e ordinando che tutte le altre, parte cantassero e parte lo precedessero di qualche passo avanti, ballando graziosamente, e facendo tutte insieme dei continui atti di amore, alquanto sensuali e voluttuosi.

 

La fata, copertasi la faccia con un velo sottil sottile, traverso a quello guardava di tanto in tanto amorosamente il Guerrino, mostrandosi negli occhi accesi fortemente invaghita di lui.

 

E tanta fu la potenza di quegli sguardi infuocati e bramosi di desideri, che egli, impressionatosene assai, in breve si trovò talmente innamorato di cotesta

maliarda, che dimenticò ogni cosa: vale a dire i buoni consigli e gli ammonimenti datigli dai tre romiti.

 

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Scambiatesi molte graziose parole, giunti che furono al palazzo, entrarono in una bellissima camera, da lui   non peranco veduta.

 

Le ricchezze che erano in quella adunate, facevano abbagliare la vista: ma come il tesoro della fata, tutto era falso ed imitato, senza aver nulla di pregio o d’intrinseco.

 

Appena fu introdotto dentro, il Guerrino si pose a sedere accanto alla fata, dando principio a certi toccamenti di mano, che viepiù riscaldarono tra i due le fiamme di amore.

 

Le damigelle, a un cenno di Alcina, si allontanarono, e serrarono la porta dietro a sé: il Guerrino, quando si vide solo con Alcina, abbassò tosto gli occhi a terra, e in quel mentre gli tornarono in mente le parole dei romiti.

 

Allora per tre volte fece questa invocazione:

 

- Gesù Cristo Nazzareno, aiutatemi e salvatemi da ogni tentazione! -

 

Accortosi dell’inganno fatale cui s’era messo, divenne pallido in volto e smarrito d’animo. Per questo drizzatosi in piedi, andò verso l’uscio, ed apertolo, senza dir nulla uscì fuori.

 

La fata aspettò invano ch’egli tornasse presso di lei; poi vedendo che non tornava, corse in traccia di lui, e gli domandò la cagione per la quale era fuggito.

 

Il Guerrino rispose:

 

- Io mi sento molto male, e parmi di venir meno! -

 

Pertanto, dalla domanda rivoltagli, capì bene che la fata, per quanto si vantasse di conoscere i pensieri di  tutti, riguardo a lui non aveva indovinato ciò ch’ei provasse e sentisse in cuore.

 

Tornati un’altra volta nel giardino, furono fatti molti giuochi e passatempi per distrarlo: indi, fattosi sera, andarono a cena. Mentre il Guerrino mangiava con la fata, servito da quelle giovani damigelle, volendo avviare il discorso allo scopo che voleva, cominciò bel bello a parlare di amore, raccontando alcuni fatti che all’amore si riferivano: poi le doman-

 

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dò franco e aperto se ella sapesse chi fossero suo padre e sua madre e da qual prosapia fosse stato generato.

 

Alcina gli disse:

 

- I tuoi genitori sono vivi: ma con tutto ciò il saper questo per te è nulla. Però ti dico che tu, da fanciullo,  all’età di circa due mesi, fosti dato in guardia ad una gentildonna di Costantinopoli, la quale aveva nome Sefferra, che, per un cero caso che le accadde, se ne fuggì per mare. Discesa ad un porto, volle imbarcarsi per altri lidi, ma raggiunta la nave dov’era, da tre galee di corsari, la balia che ti dié il latte venne presa da coloro e siffattamente strapazzata, che al terzo giorno morì. Quanto al famiglio che accompagnava la nutrice, fu gettato in mare, e tu stesso venduto nell’arcipelago a un mercante di Costantinopoli chiamato Epidonio. Costui aveva un figlio, per nome Emdomo, al quale tu fosti dato per schiavo. Il nome che tu avevi prima di essere battezzato era Guerrino: ma per le vicende accadute ti venne imposto anco quello di Meschino. Questo ti posso dire e non altro saprai: il che, se lo consideri, è ben poco o niente, per soddisfare a’ tuoi voleri. -

 

Egli, sentendo tanta sventura, cominciò a lacrimare e a piangere, pensando a quelle parole, sospirò assai.

 

Nondimeno tenne segreta nell’animo suo l’amarezza che provava, e per quanto egli facesse per sapere altri   ragguagli da colei, non vi poté riuscire ché non bastarono né preghiere né lusinghe, né promesse.

 

Onde, il segreto di sapere chi fosse stato il padre suo, rimase anco allora un mistero.

 

Intanto, fattasi notte, egli fu menato in un’altra ricchissima stanza, dove la fata cercò d’intrattenerlo con mille giuochi, tali da soddisfare ogni corpo avido di piaceri.

 

Però tutte le carezze e le moine adoperate per farlo innamorare, e giungere al punto di peccar seco carnalmente, riuscirono vane.

 

 

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Nonostante andò a letto seco, ed ella, standogli coricata appresso a lui, pensava al modo di farlo precipitare nel peccato.

 

E di vero il Guerrino, vedendosela li presso così bella e voluttuosa, si sentì di nuovo infiammare il cuore e accendere i sensi: ma pensando a ciò che i romiti gli avevan detto più volte, ripeté la triplice giaculatoria:

 

- Gesù Cristo Nazzareno, aiutatemi e soccorretemi!

 

Questa invocazione fu di tal possanza, che non appena gli ebbe detto quelle parole, la fata si alzò, uscì dal  letto, se n’andò via di camera e si partì lungi di lì, senza nemmeno sapere perché avesse fatto questo.

 

Il Guerrino, rimasto solo, dormi tutta la notte in tranquillità e pace, senza provare molestia né da lei, né da altri.

 

 

CAPITOLO X

 

Come il Guerrino scampasse, per fortuna, dalle cose fatali mostrategli dalla fata e giungesse al sabato, nel qual giorno intese quali fossero le cause per cui tante esseri si trasformavano in mostri ed in altri rettili e animali orrendi e schifosi.

 

 

Il Guerrino, per grazia di Dio, dormi tutta la notte tranquillo, e giunto il mattino, la fata andò di buon’ora a visitarlo, accompagnata da moltissime damigelle.

 

Quand’egli si fu alzato, gli apparecchiarono un bellissimo abito di seta, riccamente guarnito, e datogli a montare un buon cavallo, Alcina lo condusse seco per una vasta pianura.

 

Egli notò che quel giorno era di mercoledì, e che il paese che andavano visitando trovavasi sotto il dominio dell’incantatrice.

 

Costei gli promise di farlo signore di tutto, solo

 

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 che avesse voluto: e di mano in mano che andavano innanzi, videro e visitarono non poche città, paesi, ville e castelli, che era impossibil cosa potessero trovarsi in un luogo sì ristretto e montuoso: onde il Guerrino si accorse che tutto ciò aveva luogo sotto l’influsso di un incantesimo, e che nulla di vero vi era al di fuori di una falsa illusione.

 

Anzi l’apparenza del vedere e del fare giunse a tanto, che a lui pareva benissimo aver fatto e veduto ciò che non era mai accaduto o esistito!

 

Tornatosene al palazzo di prima, al Guerrino ci volle non poca pazienza ed astuzia per salvarsi dalle costoro insidie: tanti erano i modi co’ quali tentavano di scuotere e vincere la sua virtù, assai pericolante a dire il vero, in mezzo a siffatte sirene.

 

Giunto il venerdì, sentì crescergli viepiù un interno affanno: e quando fu la sera che il sole volgeva a  ponente, notò come tutti coloro che abitavano quella regione incantata, diventassero ad un tratto pallidi in viso e smarriti, nel sembiante, prendendo un aspetto di paura, da non si vedere l’eguale.

 

Maravigliandosi assai di questo, udì, nel corso della notte che doveva condurre al successivo giorno, dei grandi lamenti e molte voci disperate di gente.

 

Essendo venuto il sole, affacciatosi al balcone, osservò che tutte quelle persone diventavano malinconiche assai, e trattenùtosi alquanto a vedere coloro che passavano, vide uno, che pareva avere una quarantina d’anni, starsene tutto dolente e spaventato.

 

Il Guerrino, chiamandolo a sé vicino, gli domandò:

 

- Gentile uomo, se la potenza Divina non te lo vieta, dimmi perché ti cambi tanto in viso e ti scolorisci ogni momento! -

 

Quello, viepiù mesto e titubante, replicò:

 

-         Ahimé meschino! Deh! non aggiunger pena sopra pena. Per forza mi convien dirti qual sia il mio male  adesso, avendomene per lo Iddio scongiurato.

 

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 Se io avessi potuto indovinare questa tua interrogazione, ti accerto che non san venuto qui. Prima di rispondere a quanto mi chiedi, sapresti tu dirmi che giorno sia  oggi? -

 

Il Guerrino rispose:

 

- Sabato! -

 

- Ebbene, - soggiunse l’incognito - in questo giorno tutti coloro che si trovano qui per cagione della fata,  tutti, per ordine divino e per volere del cielo, hanno da cambiar figura ed immagine. Maschi e femmine, giovani e vecchi, ognuno ha da diventare in breve, come vedrai, o bestia, o drago, o serpente, o basilisco, o scorpione, o rospo, o altro verme che sia! Quanto a te, non temer di nulla, che niuno avrà possanza di offenderti o di nuocerti. Quando noi tutti saremo divenuti tali quali ti dico, guarda, se caso mai ti

prendesse fame, di non mangiar vicino a noi: ma invece devi cercar di andartene ove sei solito cibarti gli altri giorni. Noi siamo condannati a vivere così trasformati sino alla domenica mattina, nel qual giorno riprendiamo i nostri corpi di prima: e così ci avviene per ciascun sabato dell’anno, finché non verrà il  giudizio finale dell’umanità intiera. -

 

Quando il Guerrino ebbe intese queste cose, molto se ne maravigliò, e per questo disse:

 

- Se voi non aveste peccato, non vi accadrebbe di diventare così brutto e schifoso! -

 

     E mentre facevano tali ragionamenti cominciò a spuntare il giorno.

 

Il Guerrino domandò a costui di qual nazione fosse, e quegli stava già per dirglielo, quando, sospirando, cominciò d’un tratto a bestemmiare il momento, il giorno e l’ora che venne al mondo, maledicendo la natura che non lo fece di pietra.

 

Poi, smaniando e gettando via gli abiti che indossava, cominciò a trasformarsi lentamente in dragone,   sfigurando tutto dalle gambe, il busto e su su fino alla testa, che fu l’ultima a subire quella orribile  trasformazione.

 

Al Guerrino, che osservava stupefatto l’orrido

 

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 spettacolo, parve che quell’essere fosse la più brutta e spaventevole creatura del mondo.

 

Sembrava di terra e non diceva più una parola, essendo diventato tutto umile e dimesso.

 

Egli allora pensò in cuor suo:

 

- Se anco dovessi starmene qui diecimil’ anni non peccherei con chicchessia per tutti i tesori del mondo! -

 

Osservò quindi un altro essere divenuto in un attimo un enorme basilisco, che aveva testa e voce di cane, una lunga coda di tre braccia, e gli occhi colore del fuoco. Abbaiando e mordendosi da sé stesso, pareva in preda all’ira più terribile.

 

Non pochi altri stavano appresso in diversi aspetti schifosi, e veduto questo, il Guerrino, alzando le mani al cielo, esclamò:

 

Deh Signore Iddio potentissimo, salvatemi da ogni colpa, e tenetemi lontano da ogni occasione di commettere peccato! -

 

Guardando poi qua e là, gli si presentò dinanzi gli occhi una quantità straordinaria di mostri, alcuni de’ quali con due teste, altri con quattro gambe, taluni a guisa di vermi, e di scorpioni e di rospi, e di serpenti; quali con tre bocche, quali carichi di fango, quali ancora con la cresta sul capo e la coda forcuta, con là pelle ricoperta di foltissimo pelame.

 

Nauseato da questo spettacolo volse il passo verso le sale di quel palazzo, ed anco sul suo passaggio, e per le scale, e per le stanze, e le camere, e gli anditi, trovò altri ceffi e animali molto brutti a vedersi, e le cui voci e il cui acre odore mettevano paura e disgusto.

 

Veduta, tra gli altri, una quantità di bisce, gli colpì lo sguardo di una di esse, la quale sembrava la maggiore di tutte: ed egli, rivolgendole la parola, n’ebbe in risposta questa frase:

 

- Cavaliere, non temere di nulla, perché quello che tu vedi, non accadrà mai a te! -

Poi vistolo pensoso gli gridò:

-         Vi hai tu forse posto mente? –

 

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- No, - diss’egli tosto - no, per grazia somma di Dio! -

 

E condottosi al luogo dov’era solito di trovare imbandita la tavola, vide che era stato già preparato l’occorrente, e perciò, senza dire altro, né pensare, né vedere, si assise a quella, e mangiò ciò che gli veniva a mano a mano servito dinanzi.

 

Così facendo rimase dal vespro del sabato fino al lunedì venturo, all’ora di terza.

 

CAPITOLO XI

 

Come la fata dichiarasse al Guerrino moltissime cose, spiegandogli in qual modo avvenisse che tutta quella generazione di  gente fosse trasformata in orribili animali, a seconda della diversità dei peccati commessi.

 

 

Il sabato, passata l’ora di terza, il Guerrino mosse il passo verso le camere dell’incantatrice, che incontrò in  una sala, circondata da una quantità di damigelle ch’era un desio a vederle, tanto gli parvero belle.

 

Alcina aveva perduto la forma di biscia ed era ritornata nel suo primitivo aspetto.

 

Andatagli incontro con falso riso, egli, quando vide tanta beltà, di maravigliò altamente: e senz’altro le chiese notizie di ciò che cercava, dandole in egual tempo ragguaglio di tutto quello che aveva visto e  sentito.

 

Salutandola con cortese aspetto le disse:

 

-Che quelle cose in cui tu hai più speranza, ti aiutino o nobilissima fata! -Ella, sentendo tali parole, rispose:

 

- Com’è che tu mi chiami fata, se io sono fatta e formata di carne eguale a te? - Poi gli domandò se sapeva come fosse formato l’uomo, ed egli rispose di no. Allora gli spiegò molte cose riguardanti la formazione del corpo umano, i sentimenti dell’anima,

 

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 i cinque sensi della persona, e tanti altri ragguagli interessanti, circa l’influenza degli astri sulla terra e sulle genti che vi abitano; ed egli, quando ebbe ascoltato ed inteso tutto, così le disse:

 

- Com’è che tanti che io vidi in questi giorni aver forma umana si trasformarono poi in diverse specie di rettili, di mostri e di vermi?

 

- Ella in tal guisa cercò di appagare il di lui desiderio, rispondendogli:

 

- Poiché ti è grato di saper tutto, cercherò contentarti in quello che desideri. Però vorrei sapere più  specialmente chi ti ha colpito la fantasia, in quella strana ed inconcepibile traslazione di membra? -

 

Il Guerrino le disse:

 

- Ho visto un bell’uomo diventar a un tratto un orribile drago, tanto fiero e spaventoso, che mai vidi al mondo più brutta cosa di quello. Costui aveva sulla testa sette corna, e se ne stava immobile affatto. -

 

Ella in tal modo gli rispose:

 

- Sappi che costui fu in vita sua un grande signore di un castello della Calabria, uomo assai superbo e vanitoso, pieno di vizi, ingolfato in ogni sozzura, il quale, durante l’intera esistenza, mosse sempre guerra a tutti i vicini, e però, perduta la signoria, disperato, non sapendo più come fare a soddisfare le sue voglie, se ne venne qua fuggiasco. li suo nome non m’è lecito dirti, e solo ti posso significare che quei sette corni che gli vedesti spuntare sul capo, voglion dire i sette peccati mortali che ognora commise al mondo. Ed ora seguita pure a interrogarmi, che vedrò di soddisfare a’ tuoi desideri, il meglio che mi sarà possibile. -

 

Il Guerrino allora proseguì a domandarle:

 

-Vidi ancora una quantità di persone ridotte in vermi, lunghi tre braccia circa, con piccola testa, bocca larga,  occhi infuocati, e con una coda rossa, sì che pareva di cavallo. Essi, prendendosela tra’ denti, se la  mordevano acerbamente. Del resto il loro

 

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insieme aveva la forma di un aspide. -

 

La fata gli rispose:

- Costoro appartennero già alla specie degli uomini che vivono nella iracondia e nell’odio: ecco perché stavano mordendosi la coda. -

 

Il Guerrino continuò:

-Osservai altresì cert’altri esseri divenir brutti e laidi come tanti rospi, grossi talmente e gonfiati tanto, da  far credere a chi li guardava che dovessero da un istante all’altro scoppiare. -

 

Alcina rispose:

- Cotesti furono al mondo invidiosi, e perciò dal livore che li consuma, par che debbano farsi in pezzi. -

 

Il Guerrino nuovamente disse:

-Sarei desideroso di conoscere perché taluni di quegli esseri, siffattamente trasformati, avessero tra bocche molte grandi, e, tra esse, una assai più spaziosa  delle altre. -

 

E la fata, aderendo al suo dire, così rispose:

 

-Questi sono coloro che avarissimi e cupidi dell’altrui danaro, danneggiano il prossimo, mostrandosi nemici di Dio e dei poveri. La loro disperazione li trasse al castigo, e per voler troppo ottenere, così trovansi ridotti. –

 

Il Guerino, continuando a volere avere ragguaglio di tutto, domandò all’incantatrice chi fossero quelli veduti in forma di scorpione, rivoltolarsi entro della melma terrosa, tenendo conficcato in quella il proprio volto, quasi ché temessero lo sguardo altrui, o la luce del sole.

 

Ed ella, condiscendendo tuttavia alle di lui richieste, gli fece sapere che siffatte creature erano i pigri e gli accidiosi, amanti dell’ozio, nemici di ogni operosità e che, per causa del loro mal volere, si erano trovati a  sì mal passo.

 

Volendo poi essere ragguagliato sopra coloro che mandavano un gran puzzo attorno, con la gola aperta e riarsa, seppe che appartennero già ai golosi e ghiottoni, i quali, per il loro peccato, nulla trovano

 

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 da saziare la fame che li tormenta.

 

Finalmente ebbe spiegato dalla fata che coloro che avevano le ali di drago, con la testa a guisa di gallo, la coda di serpente e gli occhi accesi e lussuriosi, che bramosi di ogni sozzura e lurido vizio castigati in sì crudel guisa.

 

Da tutto questo il Guerrino poté conoscere che Dio, per sua divina giustizia, aveva dannati tutti costoro a simili supplizi, attendendo il giorno finale della condanna definitiva.

 

 

CAPITOLO XII

 

Come il Guerrino pregasse più e più volte la fata Alcina a insegnargli chi fu suo padre, ed ella si rifiutasse costantemente a’ suoi desideri, adirandosi fortemente con lui.

 

 

 

Poiché il Guerrino ebbe inteso tutto quanto le aveva domandato e in qual modo tutte quelle creature fossero divenute a un tratto tanti mostri orribili e spaventosi, pregò caldamente il Signore Iddio a concedergli tanta grazia di uscir di colà libero e sano, illeso da ogni peccato, e coll’anima e il corpo liberi dal caso di dannazione.

 

Chiese inoltre all’altissimo Dio, dispensatore di ogni bene, di poter salvare l’anima sua, raccomandandogli di volergli dar tanta forza nell’animo da resistere agli attacchi della lussuria, che in quei giorni furono moltissimi.

 

Ogni mattina recitava divotamente i sette salmi penitenziali, con molte altre orazioni, e così orando e pregando, giunse alla settimana successiva, nella quale vide la solita trasformazione di quei corpi animali.

 

Aspettando, dunque, che la fata riprendesse la sua completa figura, non appena quella si trovò in sua presenza, la richiese caldamente di volergli

 

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dare maggiori ragguagli de’ suoi genitori, e gli palesasse chi fosse il padre suo, ed ella si mostrò ben disposta a volerlo soddisfare: ma siccome richiedeva in compenso di peccar seco lussuriosamente, il Guerrino non volle acconsentire, ed energicamente si rifiutò alle sue colpevoli richieste.

 

Per questo ella si adirò tanto contro di lui, che non volle più vederlo, e così da una settimana all’altra passò tutto l’anno, senza concedergli alcuna risposta.

 

Non vi erano pertanto che tre giorni a spirare l’epoca prefissa, ed egli fortemente addolorato, molto si contristò: e stando tra sé in gran pensiero su ciò che avrebbe potuto tentare per sapere quello che gli premeva tanto, alla fine si decise di ricorrere di nuovo alle preghiere, chiedendo di parlare alla fata.

 

E ottenuto di esser condotto in sua presenza, così le disse:

 

- O sapientissima donna, se qualche virtù hai nel cuore, io ti prego, per quella, a volermi dire per piacere quanto già più volte io ti chiesi: e questo ti domando con fervida preghiera, acciocché non si dica, che io abbia fatto tanti sacrifizi invano, e che dopo i molti strapazzi e le peripezie sofferte, non abbia potuto raggiungere il mio intento. Deh! dunque abbi di me pietà, e contentami in quello che umilmente imploro! -

 

La fata così gli rispose:

 

- Senti mio cavaliere, tu non saprai da me null’altro fuori di quello che ti ho già detto: ed anzi ti dichiaro che mi sono assai pentita di averti fatto conoscere che provieni da nobile e gentile lignaggio, e di averti dato delle altre particolarità riguardo alla tua infanzia. Il tuo procedere meco, anziché quello di gentiluomo, mi parve di villano, e per questo ti disprezzo e non ti contenterò mai in ciò che tu desideri!

-Quando il Guerrino intese questa risposta, rimase assai turbato, e rivoltosele con grand’ira contro, in tal modo soggiunse:

 

-Io ti ripeto, o maliarda, di volermi insegnare in

 

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 modo preciso e sicuro, chi sono i miei genitori e dove io possa trovarli! -Alcina, facendosi beffe del suo dire, non volle condiscendere a nulla; anzi, per fargli maggior onta e dispetto, gli disse:

 

- Cavaliere, il duce Enea troiano fu molto più cortese dite, ed io lo condussi per tutto l’inferno, mostrandogli il padre Anchise, non che quelle genti di Roma, che da lui dovevan nascere per fondare la metropoli del mondo! Non insistere pertanto più oltre, perché ti ripeto, che da me non saprai da quale generazione tu discenda.-

 

Il Guerrino, tuttavia, sperando sempre di vincere la sua pertinacia, cominciò di bel nuovo a prometterle   grandi cose, se quella gli avesse detto quanto voleva sapere: e le disse che avrebbe procurato di farle acquistare fama tra gli uomini, dichiarando della sua nobiltà e gentilezza, tacendo sulle strane e bruttissime trasformazioni che andava soffrendo settimanalmente.

 

Ma da rea femmina qual era e da empia incantatrice, gli replicò che non si curava né di onori, né di fama, e che non aveva veruna vergogna, né di persone, né di parenti, ma solo aveva in mente di contentare i suoi appetiti disordinati, di saziare le sue voglie lussuriose. Perciò gli disse chiaro che desistesse dalle importune richieste, essendo ella tal essere, da sprezzare Dio e il prossimo, dei quali non si curava più che  tanto.

 

Laonde, per cotesta ostinata caparbietà e cattiveria, egli, montato viepiù in collera, tutto rabbioso, così le rispose:

 

- O iniqua e rinnegata strega, sii tu maledetta dall’Eterno Iddio! Intanto, a suo nome e in nome della Divina Maestà, io ti scongiuro e voglio tu mi dica chi è mio padre e dov’egli sia! -

 

Ed avrebbe proseguito nello scongiuro, se quella, interrompendolo, non gli avesse soggiunto:

 

-         Va’, va’, falso ed ignobile cristiano! Le tue minacce, i tuoi voleri, le tue preghiere, io non curo,

 

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 ma anzi pongo in dispregio; i tuoi scongiuri non possono nuocermi; imperocché, sebbene io abbia forme umane eguali alle tue, pure sono fantasma e spirito incarnato, che trovasi così ridotto per ordine del divin giudice supremo, che mi condannò, insieme ai demoni, a questa vita incorporea ed incomoda. Perciò taci, che non  sono eternamente disposta ad ascoltare quello che tu mi vai dicendo, e da me non saprai nulla, più di quanto ti ho detto dapprima. Se poi vuoi insistere per sapere di tuo padre, vai verso ponente, cerca ivi dell’inferno, e là dentro ti sarà mostrato in figura chi è il tuo genitore e che cosa faccia! -

 

A queste parole il Guerrino si tacque, e dietro di sé ebbe gran timore di non poter raggiungere lo scopo, dubitando che il padre non l’avrebbe trovato più al mondo vivente, ma sibbene morto, e, forse, dannato alle pene infernali.

 

Fattosi nondimeno cuore, nuovamente le parlò, dicendo:

 

- Credo che il tuo dire non abbia fondamento di verità: e perciò, siccome confido in Dio, così spero per sua grazia di poter ritornare dov’ero, e fare un’altra volta ricerca per tutto, finché giunga a sapere quello che tanto agogno. Intanto ti prego, per tua mercé, a  volermi restituire tutto quanto avevo con me, allorché venni in questo maledetto luogo! -

 

Ella, senza rispondergli, comandò alle compagne che gli fossero rese quelle cose ch’ei aveva, e perciò gli fu portata la tasca col pane, con gli ordigni per far fuoco, una candela intera, e la metà di un’altra da lui

consumata quando penetrò nelle caverne oscure.

 

Consegnatogli tutto, Alcina gli disse:

 

-         Ora dunque va’ lungi di qua, o cavaliere: e sappi per l’ultima volta che io no temo né la tua ira, né il tuo rammarico, poiché niuno al mondo può aver possanza di nuocermi in qualsiasi maniera, tale essendo il destino mio e della condanna a cui fui soggetta. Male o bene che tu mi desideri, non giungerà fino a me, imperocché omai fu deciso ciò che del mio

 

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 essere deve accadere nel giorno finale del giudizio divino. -

 

E in così dire sparve agli occhi suoi, e il Guerrin non la vide più.

 

Ma il poveretto riflettendo a queste sue ultime parole, pensò che l’avesse pronunziate per invidia e gelosia di non avergli potuto nuocere, ponendolo al pari degli altri, e sottoponendolo alle stesse pene cui erano stati condannati coloro che aveva veduti nel corso di quell’anno.

 

Radunate pertanto le cose sue e trattenutosi fino all’ultimo istante, fece caldissime preghiere a Dio, invocando sovente il nome Santissimo di Gesù Nazzareno, acciocché lo volesse aiutare a salvarlo da ogni altro pericolo.

 

Postosi all’ultima ora a cercare della porta per la quale era entrato, rimase molto impressionato, perché non la poteva rintracciare.

 

Si raccomandò allora all’Onnipotente, viepiù infervorato, e chiese a Lui di concedergli il mezzo di uscire da quell’oscuro e intricato labirinto, assai più difficoltoso di quello abitato in Creta dal Minotauro, mostro  che divorava i poveri ateniesi, che per entro di quello si smarrivano.

 

 

CAPITOLO XIII

 

Come una damigella conducesse il Guerrino alla porta dov‘era entrato, e parlasse con esso di varie cose.

 

 

Essendo per iscoccare il mezzodì dell’ultimo giorno, una damigella andò incontro al Guerrino, che si trovava assai impacciato nel trovare il modo di uscire da quel luogo incantato, e gli disse:

 

-         Cavaliere, mi è forza di doverti insegnare da dove tu puoi trovare l’uscita, sebbene non ne avessimo  punta volontà! Pure la Divina Provvidenza ha destinato diversamente, e perciò ti prego, quando te

 

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lo avrò indicato, di non dimenticarlo, altrimenti ne avverrebbero de’ grossi guai. Vieni dunque dietro i miei passi, ch’io ti indicherò dov’è la porta. -

 

Il Guerrino, lodando Dio della sua misericordia e bontà, pieno di gioia, seguì la damigella, la quale lo  condusse per un gran cortile, ch’ei si ricordò

benissimo d’aver passato quando fu introdotto colà; però fece riflessione entro di sé che mai, durante l’annata, aveva riveduto quella località, sebbene avesse girato per lungo e per largo un infinito spazio di terreno.

 

E questo era avvenuto per forza d’incantesimi, che non gli permisero mai di poter vedere per dove fosse ivi penetrato.

 

Mentre si avvicinavano alla porta, la damigella, tentando di trarlo in inganno, gli fece capire che s’ei avesse voluto trattenersi, ella avrebbe fatto in modo di fargli perdonare dalla fata, ottenendo il suo amore, non che il privilegio di sapere quello che da tanto tempo andava cercando di conoscere.

 

Egli però le disse:

 

- Piuttosto morir subito, che trattenermi qui anche un solo istante. -

 

E quella, per intimorirlo, gli replicò:

 

- Se tu vorrai uscire, c’è il caso di diventar tosto incenerito. -

 

- Va’ che io non temo de’ tuoi incantesimi e malìe, - soggiunse il Guerrino.

 

- Qualunque cosa accada, io confido sempre nella bontà divina, e ho ferma fiducia che Cristo saprà togliermi da questo brutto luogo, avendo somma speranza di ottenere tra breve grazia di tutto. Onde non pensare già di trattenermi qui dell’altro tempo, per starmene appresso di voi in vituperio. Aprimi dunque e lasciami andare! -

 

La damigella rimase un istante perplessa; ma poi, aprendo l’uscio, lo fe’ passare per quello, e il Guerrino allora le gridò:

 

- Domani andrò da Macco per vedere se trovasi ancora con quella brutta figura di serpente. -

 

E con tali parole uscì fuori tutt’allegro dal tenebroso recinto.

 

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Quando ebbe varcato la porta, sentì che una voce gli gridò dietro:

 

- Che tu sia maledetto, e tu non riesca mai a trovare la tua generazione! -

 

Egli, voltandosi, rispose:  - Taci, brutta strega, e di’ alla fata Alcina che io sono vivo e sano, e che giungerò ai mio scopo, salvando l’anima mia.

 

Voi, invece, vivrete in dannazione ogni giorno e ogni minuto, divenendo sempre più brutte e dannate, tanti e tanti sono i vostri peccati e le colpe commesse! -

 

Colei chiuse la porta, e il Guerrino procedé innanzi, raccomandandosi a Dio.

 

CAPITOLO XIV

 

In qual modo il Guerrino tornasse per entro le caverne e, trovato Macco, gli parlasse di sé e di altri che erano là, conoscendo come fossero stati condannati in quel luogo.

 

 

Il Guerrino, fatta orazione, si pose in cammino tra le più oscure tenebre, e quando gli parve di esser arrivato laddove doveva esser Macco, cominciò a dire:  - Signore, mio Dio, fatemi salvo! -

 

Indi chiamò quell’orrido serpente per nome, dicendogli: - Macco, io me ne vado ... addio! -

 

A queste parole gli parve di udire come un centinaio di voci che andassero gridando per dolore, rammaricandosi forte ch’ei se ne andasse.

 

Fermatosi, chiamò quel mostro per nome, il quale, udendolo, così gli rispose:

  - Che mi domandi tu? -

Il Guerrino soggiunse:

-         Macco, siccome io ritorno alla luce e perciò andrò forse fino alla tua città, quali notizie vuoi ch’io rechi sul conto tuo? –

 

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Macco rispose:

 - Ti prego di non dire né bene, né male! -

E il Guerrino replicò:

-         Hai tu speranza di partirti da cotesto luogo doloroso? –

 

Quei gli disse:

 

- No: perché qui attendiamo il giorno del giudizio universale, che sarà per noi una seconda morte e una seconda pena.

 

- Dunque sei già morto una volta? - domandò il Guerrino, curioso di maggiori schiarimenti da lui.

 

- Certo - gli replicò Macco - ed io non solo sono morto, ma mi trovo peggio che, se lo fossi, dovendo scontare i miei peccati d’invidia e di accidia, nel modo che tu sai e vedesti. -

 

Detto questo, percosse fortemente il capo sul terreno, e così fecero molti altri, ch’eran ivi con lui.

 

Il Guerrino chiese:

 

- Perché non vi date mano l’uno con l’altro, per uscire da questo stridore di pene? -

 

Macco replicò:

 

- Non possiamo farlo, perché il giudice eterno vuole che noi stiamo così fino a che egli venga a giudicare definitivamente il genere umano. Allora le trombe degli angeli suoneranno a raccolta delle anime e dei corpi, e sarà bandito il giudizio finale.-

 

Domandò ancora il Guerrino a colui:

 

- Avete voi nessun amore di Dio, o ad altra cosa creata?

 

-         Nessuno, - rispose Macco - anzi noi portiamo odio e invidia a chi vi sia, e non v’è cosa così brutta al mondo, che non sia da noi sprezzata. E nemmeno provo verun sentimento per chi mi è vicino, e neppure di te che hai girato tanto per la terra, e che vedo ora andartene libero e salvo. Se una cosa provo in me, è la rabbia e il livore di vederti rimasto illeso dalle malie della fata, la quale avrebbe potuto, co’ suoi incantesimi, farti venire nel luogo stesso dove noi ci troviamo. E il saperti libero e vicino a tornare

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dove ti sei partito, mi è di accrescimento d’ira, la quale mi si raddoppia col pianto e il dolore di non poterti nuocere, o almeno di non potermi rallegrare de’ tuoi danni. -

 

Ed a queste parole, tennero dietro alcune beffe che Macco con gli altri fecero contro il Guerrino.

 

Poi tutti insieme cominciarono a dire:

 

- Il giudice che ci ha puniti in tal guisa, è così grande e possente, che dalla di lui sentenza non ci possiamo appellare a qualsisia maggiore di lui. Onde non ci curiamo per nulla di esser abbandonati al nostro crudele destino, considerando che peggio non ci potesse intravvenire, dovendo restar ciò che siamo. -

 

Il Guerrino, prima di volger le calcagna, disse a costoro:

 

- Maledetti foste e maledetti rimarrete! -

 

Ed essi, vistolo traversare il piccolo fiumicello, esclamarono con ira:

 

- Va’ pure, e che il destino ti condanni a non poter mai ritrovare i tuoi genitori! -Egli se ne andò senza dar loro ulteriore ascolto, e montato su per la tenebrosa caverna, in capo alla stessa mancandogli la prima candela, accese la seconda, per proceder oltre nel suo cammino.

 

 

CAPITOLO XV

 

Come il Guerrino, venuto su per la caverna, dormisse alquanto, e poi, uscito da quella, se ne andasse all’aperto.

 

L’oscurità che regnava attorno per quella caverna era tale, che riusciva assai malagevole di percorrerne i  sentieri tortuosi e sassosi.

 

Andando qua e là, trovava ogni tanto qualche scoscendimento o dei fori, non che una infinità di sentieri e di passaggi, che le più volte il Guerrino si accorse esser tornato spesso nella stessa via, e

 

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rifatti i medesimi passi.

 

Egli temeva che gli facesse difetto il lume, e che se le candele si consumassero, stimava essere indubbiamente perduto: imperocché come avrebbe potuto uscire da quella tetra caligine, senza il soccorso del lume?

 

Non forza d’arme, né sapienza d’ingegno gli sarebbero bastate per uscire da tanto guaio, e perciò dentro di sé orava e pregava Iddio a volergli concedere scampo recitando destramente alcuni salmi, e più

specialmente il Salvum me fac Domine, con quel che segue.

 

Trovata finalmente l’uscita, gli venne a mancare appunto la prima candela, sicché restò affatto al buio; però egli si confortava, essendo in alto il cielo stellato e vedendo davanti a sé la famosa montagna, fatta a guisa di dragone.

 

Ivi si trattenne fino a giorno chiaro, dormendo disteso sul terreno, tanto per prender riposo: e volendo calcolare il tempo che aveva messo a giungere fin là, gli parve di aver passato circa le dodici ore.

 

Voltosi, allo spuntar del sole, indietro, e visto l’entrata della caverna dalla quale era allora allora uscito, rese grazie a Dio d’averlo scampato da ogni periglio, e raccomandandosi ad essi, recitò nuovamente, per divozione del Cristo Gesù, i sette salmi penitenziali. Preso quindi a percorrere tra le due ali della montagna, trovò pel sentiero molte pietre ammucchiate, che spesso gli sbarravano la via.

 

Il sole, uscito dal segno dello Scorpione, stava per entrare in quello del Cancro, conforme gli era stato detto : e perciò la luce si fece ancor più scura del solito.

Come volle il signore, vide da lungi il romitorio, ed affrettandosi a raggiungerlo, scese giù a precipizio, tantoché gli parve questa maggior fatica, che non quella di aver salito.

 

Giunto a un centinaio di braccia distante dal sacro recinto, vide venirsi incontro sei persone, le

 

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quali erano i tre romiti, l’oste Annello e i suoi due famigli.

 

Fermatosi insieme, questi lo abbracciarono, lodando ognuno Iddio di averlo fatto ritornare a loro nel termine prefisso, senza aver subìto veruna disgrazia.

 

Annello gli fece gran festa, e i due servi lo accolsero con atti di allegrezza, dimostrando il loro contento e la   propria sommissione.

 

Entrato nel romitorio chiese tosto di riposarsi, essendo molto stanco: ed i romiti, fattolo sedere a mensa, vollero essere ragguagliati di ciò che gli era intravvenuto e quello che aveva visto.

 

 

CAPITOLO XVI

 

Come il Guerrino raccontasse ai romiti ogni cosa per filo e per segno, e quindi con Annello partisse dal romitorio, muovendo il passo verso la città di Norcia.

 

Prima che il Guerrino cominciasse a parlare, egli domandò ad Annello che cosa fosse avvenuto del suo cavallo e delle sua armi: e questi lo assicurò che l’animale stava benissimo essendo ben pasciuto, e le armi si trovavano in buonissimo stato.

 

Allora, cominciato a mangiare e bevere di ciò che quella buona gente gli aveva preparato, e quando si fu alquanto riavuto, raccontò ad essi per ordine tutto quanto aveva fatto e veduto, narrando di Macco, della fata Alcina, delle damigelle, delle cose maravigliose osservate, non che le tentazioni sofferte, e come tanti e tanti, settimanalmente, il sabato si trasformassero in animali immondi, e terribili, per punizione dei loro  peccati e colpe commesse.

 

Di quest’ultima cosa si dolsero assai quei romiti, pensando che niuno al mondo non deve mal vivere, se non vuol riceverne castigo.

 

Il Guerrino quindi li ringraziò dei buoni

 

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ammaestramenti ricevuti, ed essi, dandogli la loro benedizione, lo congedarono, partendosene tosto con Annello, accompagnato insieme ai due famigli.

 

Montati sopra un cavallo dell’oste, s’incamminarono Verso Norcia, dove giunsero sani e salvi, smontando all’albergo di Annello.

 

 

CAPITOLO XVII

 

Qualmente il Guerrino, dopo essersi trattenuto per tre giorni all’albergo, se ne partisse per Roma, per ivi intraprendere nuove cose, come si sentirà nella parte seguente.

 

Tornati sino al castello di Salina (Sabina), la sera vi albergarono e il giorno appresso giunsero a Norcia e andarono tutti insieme ad alloggiare dall’oste Annello; ivi il Guerrino si trattenne per tre giorni intieri.

 

Fatto poi mille complimenti a costui, e donatogli quasi tutto l’oro e l’argento che gli aveva lasciato in consegna, il cavaliere tolse per sé una piccola somma, bastante a’ suoi bisogni insino a Roma, e preso altresì le armi e il cavallo, da quello temuto in custodia, si mosse coi due servi verso la direzione che conduceva all’eterna città. Giuntovi in pochissimo tempo, si raccomandò lungo la via al Signor Iddio, acciocché gli facesse conseguire la grazia che da tanti anni chiedeva.

 

Entrato che fu nell’alma città, capitale del mondo e della cristianità, vi restò solo un giorno, trattenendosi a discorrere delle sue straordinarie avventure con vari signori e baroni.

 

E poiché ebbe narrato loro il gran cammino che aveva percorso, e le battaglie sostenute, e i pericoli superati, raccontò altresì della promessa fatta alla bella Antinisca, chiedendo quanto tempo ci vorrebbe per giungere fino a lei.

 

A sentir questo, molti ebbero il dubbio che non

 

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 dicesse il vero, e molti altri ne risero, prendendosi beffe di

lui.

 

Allora il Guerrino disse ciò che gli avevano comandato i tre romiti prima di andar dalla fata, e svelò ad essi quello che aveva veduto presso l’incantatrice Alcina.

 

Quei nobili signori, persuasi alla fine di ciò che asseverava, gli fecero una lettera commendatizia per papa, nella quale erano specificate partitamente tutte le cose da quello raccontate.

 

A questa il pontefice prestò assai fede, e volle di sua persona essere dal Guerrino minutamente informato di tutto.

 

Il papa gli domandò inoltre con quali intenzioni fosse partito, vincendo tanti ostacoli e superando tante difficoltà: ed ei gli disse che l’aveva fatto al solo scopo di rintracciare la sua prosapia, e sapere chi fossero i suoi genitori.

 

Il santo padre, sentendo questo, gli fece dare dugento danari d’oro, dicendogli:

 

- Caso mai, durante il viaggio ti senta che presso San Giacomo di Galizia vi sono dei ladroni, fa’ per la tua possanza di discacciarli lontano, rendendo sicura la via, acciocché i pellegrini, che colà si recano, non siano da quei malandrini molestati, e possano d’ora innanzi viaggiare tranquilli e sicuri. -

 

Questo promesse di fare il Guerrino, e avendo ricevuta la santa benedizione, partì, essendo allora l’anno di Cristo 824, regnando pontefice massimo Eugenio Il, e imperatore Carlo Magno il vecchio.

 

Montato a cavallo e tutto bene armato ed equipaggiato, volse il passo verso la Toscana, intraprendendo in tal guisa una nuova serie d’imprese grandi e straordinarie, come si legge nella parte sesta.

 

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                                              FINE

 

“ La storia tra storie e leggende. I monti sibillini nelle fonti storiche e letterarie”

1990 – Comunità Montana dei Sibillini