tratto da
“DI GUERRINO
DETTO IL MESCHINO”
di
Andrea da Barberino
Edizione Venetia 1567
LIBRO
SESTO
Capitolo 1 – Capitolo Originale 158
Come il Meschino si partì da Roma, passò Toscana,
Lombardia e Savoia e pervenne verso la Spagna.
Benché,
il Meschino, molte parti del mondo avesse cercato, ancora molto gli piacque
questa terza parte, cioè l’Europa, perché, avendo cercato l’India, la Persia,
la Siria e quasi tutte le province dell’Asia e dell’Africa molto gli parve
bella l’Italia e le altre province e reami d’Europa. Partito da Roma passò la
Toscana, la Lombardia, il Piemonte, giunse in Savoia e poi nel Delphinato.
Andò
a S. Antonio di Vienna, passò per la Provenza e andò ad Avignone, a Mompolieri
e a Tolosa. Traversò i Pirenei e giunse
a Morlei in Guascogna. Giunto al fiume detto Garonna lasciò la strada di
S. Iacobo e volle andare a
vedere la città di Bordeaux, poi ripassò il fiume detto Garonna e andò verso la
città detta Salvaterra: per questa via si va a Murlan. Passò le montagne e
giunse a Borgies, poi andò a Pamplona, alla stalla e a Venera. Quando partì da
Venera ebbe certo affanno per colpa dei malandrini e molti ne fece morire.
Come il Meschino fu assaltato da molti
malandrini
e tutti con l’aiuto (di Dio?) li ammazzò.
Arrivò a santo Iacobo e a santa Maria de Finibus
terre.
Partito il Meschino da
Venera per andare al regno di Spagna giunse ad un fiume chiamato Ibelo e trovò
un piccolo borgo di case: in un modesto albergo di fermò e domandò all’oste se
aveva da mangiare. L’oste gli rispose che, dato che da quelle parti non si
faceva giustizia, a causa di certi malandrini usciti da un bosco e apparsi lì
intorno, aveva male da mangiare e
peggio da bere.
“Costoro
rubano a tutti i pellegrini ed anche a
noi hanno tolto pane e vino. Io non posso comprare niente e mi minacciano anche
di cose peggiori: dicono che ho fatto scappare molti pellegrini e di
conseguenza loro non li hanno potuti derubare. Se voi volete smontare cucinerò
della carne salata”.
Il
Meschino pose mente a questo luogo che gli parve proprio ridotto in pessimo
stato da malandrini e ladroni.
Nonostante
tutto smontò e si mise a mangiare.
L’oste
gli disse:
“Messere
siete molto elegante”.
Egli
ne rise.
Mentre
mangiava l’oste gli disse:
“Ohimé
vedo venire tre ladroni di quelli che vanno rubando”.
Giunsero
accanto al Meschino.
Come
lo videro si fermarono e domandarono da bere all’oste.
Il
Meschino li invitò a bere e a mangiare con lui.
Essi
si accostarono a lui e gli domandarono da dove veniva e dove andava.
Disse
che veniva da Roma e andava a Santo Iacopo, che aveva bisogno, per due o tre
giorni, della loro compagnia e che gli insegnassero la via.
Essi
subito si misero a disposizione per insegnargliela.
Lui
li accettò e mangiò con loro. Uno accennava all’altro che avrebbe potuto
guadagnare quello che egli aveva.
Il
Meschino, per amore di S. Iacopo, faceva conto di farli tutti morire e per
trovare i loro compagni accettò questi in compagnia.
Come
ebbero mangiato, pagò l’oste e mostrò quanti denari aveva con se.
Montò
a cavallo mentre l’oste gli accennava di non andare con loro.
“Non
temere, tu non sai chi sono io”.
Partì
dall’albergo con quei tre ribaldi che facevano una ragione ed egli un’altra
contro.
Il Meschino ben si
accorse che lo avevano allontanato dalla via.
Si
drizzò l’elmo in testa con la visiera levata e con la lancia in mano; entrati
per circa una lega all’interno di una selva fu attorniato da più di quaranta
malandrini che lo presero per la briglia e gli dissero di smontare.
Egli
disse:
“Per
la mia fede voi siete cattivi compagni”
Alcuni
di quelli lo toccavano con le lance per tirarlo giù da cavallo.
Egli
gridò e toccò il cavallo con gli sproni: due di loro andarono per terra e tutti
e due provarono la punta della sua lancia.
Tratta
la spada contro di essi non fecero alcuna difesa e tentarono la fuga. Non
potendo si tosto dipartirsi da lui, in questo primo assalto, con le sue mani ne
uccise ventidue. Correndo loro per la selva li inseguiva con grande rumore e
tanto li inseguì che giunse verso il mare in un castello detto Monfer, presso
la città detta Egittero a sette leghe.
Quando
quelli del castello udirono il rumore corsero in suo aiuto con i giustizieri e
il rettore del castello. Molte persone con molti cani andarono insieme a lui
cercando per tutta la selva.
Ne
furono presi e impiccati settantacinque e per quello che dissero ne avanzarono
tre. In tutto erano cento.
Quelli
del paese gli fecero grande onore e lo chiamavano il santo pellegrino.
Così
liberò quella strada dai ladroni.
Partito
da loro cavalcò per la Soria e giunse in Galizia a Compostela. Lì in Galizia, a
S. Iacopo, stette cinque giorni e poi udì dire come molti ladroni corsari di
mare venivano a rubare di la di S. Iacopo intorno a santa Maria de finibus
terre.
Montò
a cavallo e menò con se alcuni del paese.
Giunsero
due galeoni di corsari e centododici ladroni. Li fece bruciare e impiccare.
Nella zuffa ne morirono trenta e vennero uccisi anche cinque del paese.
Il
Meschino andò fino sopra il mare, dove finisce la terra, smontò da cavallo e si
inginocchiò a rendere grazie a Gesù Cristo di tanto dono che gli aveva permesso
di vedere la fine della terra abitata di Ponente.
Coloro
che erano con lui dissero la cagione per cui si inginocchiò: l’ultima terra di
Levante si chiamava ancora Tamista e l’ultima terra di Ponente si chiamava
ancora Santa Maria fine della terra, verso l’astro (sud) si chiama Rapa,
appresso il mare indicarono dove sono le grandi montagne dette monti Nunci,
dove esce il Nilo che viene per il mezzo della provincia del Prete Gianni1.
Poi partì da S. Maria e tornò fino a Lourdes dove salì su di una nave e verso
l’Inghilterra andò per mare.
andò a Vorgales dove trovò messer Dinoino,
il quale, insieme alla sua donna,
gli fece
grande onore.
Navigando per mare Guerrino capitò in Galizia, vide
la punta Mutaloia, Patras, Petronea e Arcamus e porto Priscow.
Navigando giunse al porto di Antona, smontò e pagò
la nave.
Montò, poi, a cavallo e cavalcò verso Londra
prendendo il cammino più corto per andare in Irlanda. Passò Londra e andò verso
Norgales che è il porto più vicino per andare in Irlanda.
Giunto a Norgales domandò se c’era una nave per
andare in Irlanda e gli fu risposto di no. C’era uno, però, che si
apparecchiava per partire.
Il Meschino pensava a questa città che si chiamava
Norgales e al terzo giorno si ricordò di messer Dinoino di Norgales, che egli
aveva campato in Africa. Domandò a certi cittadini e marinai se conoscevano un
gentiluomo di quella terra che aveva nome messer Dinoino al servizio del Re
d’Inghilterra.
Essi dissero:
“Messere, egli è nostro signore”.
Domandò se egli era in quella terra e risposero di
si.
Domandò da quanto tempo egli era venuto dal S.
Sepolcro e dissero che era da circa un anno.
Domandò, ancora, quanti dei suoi compagni erano tornati e risposero egli solo, mercé
Dio, e un cavaliere che lo aveva campato in Africa di nome Guerrino.
Meschino non rispose facendo finta di non intendere
e sorrise.
Alcuni di loro dissero:
“Saresti tu Guerrino?”
Egli non rispose facendo finta di non intendere.
Alcuni di loro andarono al palazzo a dire a messer
Dinoino che c’era nel porto un cavaliere che domandava di lui.
Egli levò le mani al cielo e disse:
“Dio me ne dia grazia che sia il mio signore
Guerrino”.
Andò a piedi fino al porto e quando da lontano vide
il suo cavallo disse:
“Questo è il mio signore Guerrino che mi campò in
Africa”.
Quando il Meschino lo vide arrivare con grande compagnia
di gentiluomini smontò da cavallo; Dinoino si gettò in ginocchio ai suoi piedi
con tutti quelli che erano con lui, lacrimando disse verso Guerrino:
“Ben venga il mio signore”.
Guerrino lo rialzò, lo abbracciò, per contentezza
si baciarono molte volte la fronte e quei gentiluomini, nonostante che mai lo
avessero veduto, lo abbracciarono e tutta la moltitudine della città, per la
fama che Dinoino gli aveva data, corse per vederlo.
A piedi andarono nel suo palazzo ed il cavallo del Guerrino fu governato dai
servitori.
In confronto alla sua, più grande fu la festa che
fece la donna di messer Dinoino, che invocandolo per amore gli aveva fatto
riavere il suo signore. Lo abbracciava e gli fece preparare una ricca camera.
Disarmato da messer Dinoino fu rivestito riccamente.
Come messer Dinoino fece apparecchiare
una nave e, dopo aver accompagnato
Guerrino fino in Irlanda, andò in Ibernia.
Or,
chi potrebbe raccontare la festa che si fece durante il desinare, quando Guerrino
disse che era stato alla Sibilla e a Roma dove il Papa gli aveva dato per
penitenza di andare al purgatorio di S. Patrizio.
Messer
Dinoino disse:
“Ora tu non avrai mai
posa. Io son disposto a che tu riposi qui in casa con me, perché solo una cosa
non sarà in comune a te e a me, la mia donna; ogni altra cosa farò più tua che
mia”.
Poi
disse:
“Io
ho una sorella, la quale ha quindici anni, e questa sarà tua donna”.
Il
Guerrino disse:
“Sono
obbligato alla bella Antinisca a cui più volte promisi di ritornare a prenderla
come mia donna e sai che ella mi aspetta a Presopoli”.
Quando
Dinoino intese che Guerrino aveva ancora animo di tornare in Persia si
meravigliò e disse:
“Oh
signore mio Guerrino, io ti prego di andare insieme a far visita al Re
d’Inghilterra che per le parole che io gli ho detto di te ha gran desiderio di
vederti”.
Guerrino
rispose:
“Io
convengo andare al purgatorio di San Patrizio e, se a Dio piace che io torni,
voglio attendere a quel che ho promesso alla bella Antinisca. Quello lo voglio
adempiere solamente per farla battezzare e vi prego, per questa buona amicizia
di giurata fratellanza che c’è tra noi,
che mi facciate portare in Irlanda. Quando, poi, saremo tornati andremo
a visitare l’Illustrissimo Re d’Inghilterra”.
Messer
Dinoino rispose:
“Voi
non andrete senza di me”.
Rispose
Guerrino:
“Voglio
che mi perdoniate però devo compiere questa faccenda da solo”.
Disse
messer Dinoino:
“Almeno
fino in Irlanda vi farò compagnia” .
Comandò
che una nave fosse apparecchiata e che al terzo dì fosse in porto.
Disse:
“Pregate
Dio per me”
Per
questo ogni uomo sacro di tenerezza entrò in mare ed anche Dinoino.
Egli
prese licenza dalla donna di messer Dinoino che gli fece compagnia fino in
Irlanda.
Navigando
da quella parte videro l’Isola di Inania e in pochi giorni giunsero al porto di
Sconsarda, in Irlanda, nella quale isola ci sono queste città sul mare:
Sconsarda verso l’Inghilterra e verso Garbino c’è un’altra città che ha nome
Diocidia.
Da
Sconsarda fino alla città di Daus sono cento miglia e questa sta sul fiume
detto Irbausi, poi c’è un’altra città detta Venech e da lì fino alla Spagna
sono cento miglia. Ci sono molti castelli, molti animali e molti grandi boschi
disabitati.
Verso
la Spagna c’è ancora un altro paese chiamato Lancia che ha due città: l’una ha
nome Laumerichie e l’altra Garefonda. Vi sono molti castelli e ville, è un
paese molto temperato e ci vivono molte persone anche se è un paese lontano
dalla terra ferma e male abitato.
Questo
dimostra l’umana natura che per consuetudine appartiene più alla terra che ad
altro elemento e con tutto che in questo paese si vive molto, nondimeno abitano
più la terra ferma, perché la terra mostra esser il più naturale elemento e
vera nostra madre.
Egli
partì da Sconsarda e andò in Irlanda, poi andò a Venech e dopo in Ibernia,
l’ultima città che è verso Ponente: un bellissimo paese di cinquanta miglia ben
abitato e di ogni cosa fornito, fortissimo paese sia di gente che di terreno ed
anche di fortezze. Sulle porte c’è sempre buona guardia per i corsari. In
questo paese signoreggia l’Arcivescovo d’Ibernia; hanno moglie sia i sacerdoti
che i secolari e beati sono coloro che si possono imparentare con loro.
In
questa città d’Ibernia arrivò Guerrino.
Come il Meschino andò dall’Arcivescovo, egli lo
confessò,
gli dette una guida e le chiavi del Purgatorio.
Come
giunse in Ibernia il Meschino disse:
“Oh
vero Dio, tu sempre sia lodato e ringraziato perché mi hai dato la grazia di
vedere questa ultima città del mondo”.
Il
Meschino giunto in Ibernia, domandò dell’Arcivescovo e non sarebbe stato capito
se non avesse saputo ben parlare.
Giunto
dall’Arcivescovo domandò la confessione.
Egli
comandò che fosse alloggiato nella sua corte.
Il secondo giorno si
confessò di tutto quello che aveva fatto fino a quella ora e incominciò da quel
dì che conoscete: stette dalla mattina fino al vespro.
Quando
ebbe terminato l’Arcivescovo disse:
“Tu
sei il maggior peccatore che io abbia mai confessato. Non pensi a come sei
andato cercando gli idoli, appresso agli incantamenti del demonio e, come se
non bastasse, sei andato cercando la vanità della fata, sei stato un anno
scomunicato con la Sibilla ed eri perduto anima e corpo. Tutti questi sono i
peccati contro Dio e la santa chiesa e contro l’umana natura”.
“Ora
pensa a quanto è grande il tuo peccato”.
Per
questo gli venne tanta paura, pianse amaramente, cominciò a pregare Dio
affinché avesse di lui misericordia e lo facesse entrare nel pozzo, ovvero nel
purgatorio di santo Patrizio per purgare i suoi peccati.
Disse
l’Arcivescovo:
“Io
non voglio che ti metti in tanto pericolo perché molti ci sono andati e non
sono tornati. Tu puoi fare una santa vita e stare in questo ordine che io ti
darò”.
Egli
rispose dicendo:
“Oh
santo padre, io non posso, per la promessa che ho fatto ad Antinisca di
Presepoli alla quale giurai, per sacramento, di tornare; io falsificherei il sacramento di tornare e
farei cagione forse di maggior male”.
Per
questo l’Arcivescovo lo assolse affinché entrasse nel purgatorio.
Allora
il meschino gli dette la lettera del santo Papa.
La
lesse e poi disse:
“Perché
non mi mostrasti prima la lettera?”
Rispose:
“Perché
non turbassi la mia andata”.
Egli
disse:
“Anzi,
al contrario poiché la lettera dice che il Papa ti ha dato questo viaggio in
penitenza tu non sarai assolto se non ci vai”.
Allora,
da parte sua, gli fece una lettera e gli dette un’altra guida che lo conducesse
fino all’isola di santo Patrizio dove è il purgatorio: vi è una bellissima
chiesa che è chiamata i dodici Apostoli.
Gli
dette una chiave grande che la portasse all’Abbate, ovvero priore del luogo.
Gli rese grazia dell’onore che gli aveva fatto e lo pregò di tornare da lui.
Così
prese commiato.
Partito
il Meschino da Ibernia, con la guida e con la chiave, dall’isola d’Irlanda
cavalcò per la strettoia che porta all’Isola dove è il purgatorio, la qual
isola allora era chiamata Isola Santa, perché, per l’aria temperata, nessuna
persona vi era mai morta: non vi è nessuna cosa velenosa, ne letale, ne cosa
pessima.
Quest’isola,
secondo gli antichi, si chiama Isola Sovvenzioni: su di essa non vi possono
vivere né volpi, né faine e molti altri animali che sono sopra la terra. Vi è
l’aria così ben temperata e ben disposta che gli uomini e le donne vanno lì
quando sono molto vecchi e la vita li rincresce.
Quando
sono così vecchi si confessano, si conciano l’anima e si fanno portare in mare,
oltre questo stretto di mare che è tra l’Irlanda e quest’isola, e come sono in
Irlanda muoiono.
Questo
ordine è loro concesso dai sacerdoti.
Quest’isola
anticamente fu chiamata Isola Santa e al presente Isola Carnara, il qual nome
fu posto dai marinari quasi volendo dire che sono i loro carnefici perché
portano i loro vecchi alla morte.
Questa
gente vive santamente e sono amici di Dio: molto religiosi. Vi sono pochi
ladroni e non tanti pessimi nemici di Dio e dei santi; sono in mezzo a noi e
così i marinari hanno posto loro questo nome.
Disse
il Meschino:
“Dimmi
tu che cosa è oggi il mondo che i cristiani non l’abbiano guastato: il mondo è
pieno di ladrocini, di ogni tradimento, d’ogni fraudolenza. Tale padre, tale
fratello e quale religioso si può oggi fidare l’un dell’altro che religione,
amore, fede e carità. Tutti gli uomini hanno in odio i buoni e ad essi
aggradano i cattivi. La città di Firenze non è come quest’isola santa, anzi,
tutto l’opposto del bene: ha per consuetudine il morire, ma non la provvidenza
del morire. Questo mi rincresce perché nessuno
può vivere come in quest’isola”.
Passò
e andò in mezzo all’isola, in un bosco, nel mezzo del quale trovò un grande
agglomerato di casamenti e una chiesa non molto grande. Si presentò al maggiore
del luogo che stava sempre lì, aveva due monaci e stentatamente officiava.
Questo
luogo, secondo la leggenda fu fatto in questo modo nel principio di Santo
Patrizio. Narra la storia che l’isola d’Irlanda è la più bassa isola della
terra verso Ponente e il più lontano luogo dell’isola è Ibernia: per questo gli
abitanti sono abbandonati dai cristiani e nessuno si cura di loro. Quelli di
Ibernia non si battezzavano perché già in Inghilterra, che prima si chiamava Britannia,
i primi cristiani non furono gente che si curasse del vivere se non in vanità e
che attendessero a crescere la fede cattolica: in questo non si davano troppa
fatica di far battezzare qualche persona.
Essendo
Santo Patrizio religioso e amico di Gesù Cristo domandò grazia a Dio di far
tornare tutti quelli di Ibernia alla fede cristiana, perché erano infedeli:
cominciò a predicare a quelli di Ibernia la fede di Cristo e il santo
battesimo.
Essi
si facevano beffe di lui.
Santo
Patrizio incominciò a predicare come Dio doveva venire a giudicare il mondo;
come avrebbe dato ai buoni vita eterna e ai rei, cattivi peccatori, le pene
dell’inferno; come nessuno si poteva salvare senza il battesimo e appresso al
battesimo bisogna essere puri e netti e purgati di tutti i peccati.
Per
queste predicazioni, che dicevano come Dio prometteva il bene ai buoni suoi
amici e il male a quelli che non erano suoi buoni amici, cominciarono ad
entrare in grande pensamento e cominciarono a dire a Santo Patrizio che
mostrasse loro questi beni di vita eterna, le pene del purgatorio e quelle
dell’inferno.
S.
Patrizio disse come queste cose si davano alle anime nostre se le avevano
meritate in questa presente vita e dopo la morte avrebbero avuto il loro
merito.
Risposero
che fino a quando non vedevano queste cose non si sarebbero mai convertiti.
Per
queste parole Santo Patrizio si vestì di cilicio a carne nuda, stette un anno
in orazione pregando Dio affinché gli insegnasse quello che doveva fare per far
convertire questa gente.
Dopo
un anno, da quando si era messo in orazione, stette nove giorni senza mangiare
e senza bere e non si levò mai d’inginocchioni tanto era con l’animo fermo ad
adorare e pregare Dio.
Allora
gli apparve nostro Signore Gesù Cristo che disse:
“Levati
e vieni appresso a me”.
San
Patrizio lo seguì.
Lo
menò sopra l’isola Santa, detta l’isola del lavoro, e nel maggiore deserto,
sopra una selva di quell’isola, gli mostrò una caverna grandissima che andava
sotto terra e gli disse:
“Quella
persona che entrerà in questa caverna, ben confessato e ben contrito dei suoi
peccati, sarà salvo, rimarrà puro e netto come un fanciullo quando è
battezzato. Quando andrà per questo purgatorio non si lascerà ingannare dal
demonio e non gli obbedirà per nessuna cosa gli comandi, perché il demonio
palesemente domanderà di essere servito. Questo ti converrà predicare e
predicherai a quelli che stanno al mondo perché se il demonio li farà peccare
per ignoranza io perdonerò loro per bocca dei sacerdoti quando si andranno a
confessare, ma si devono guardare dal peccare in malizia in me, cioè in Spirito
Santo, e quelli che entreranno in questo pozzo vedranno il purgatorio,
l’inferno e la gloria di vita eterna”.
Gli
fece vedere ogni cosa.
Gesù
Cristo gli dette un libro nel quale erano scritti gli Evangeli, l’Apocalisse di
San Giovanni, la vita dei dodici apostoli e le Epistole di San Paolo.
Gli
dette una mazza, cioè il pastorale, come lo porta l’Arcivescovo d’Ibernia, e
poi Gesù Cristo gli disse:
“Vattene
in Ibernia e mostra ogni cosa. Predica loro la santa fede e quello che hai
veduto. Tu sarai fatto Arcivescovo, darai l’ordine ad ognuno di prendere questa
mazza in mano, di giurare sopra questo libro di osservare i comandamenti della
chiesa, di predicare i sacri Evangeli e di esporre queste cose al popolo”.
Detto
questo sparì.
Santo
Patrizio si trovò questo libro in mano e la mazza, andò a predicare in Ibernia
e fu data fede alle sue parole. Fu fatto Arcivescovo d’Ibernia, fu il suo primo
pastore e per riverenza a Dio fece fare un tempio in mezzo alla città dove
ancora ci sono queste due cose: il libro, che si chiama di Santo Patrizio, e il
pastorale.
Queste
cose fanno molti miracoli, si mostrano come reliquie.
Come
Santo Patrizio fu fatto Arcivescovo fece adunare tutto il popolo e lo menò in
processione in quella loro isola. Andarono fino a quella caverna che Dio gli
aveva mostrato e fece fare, per riverenza a Dio e ai dodici apostoli di Gesu
Cristo, una chiesa a lato di questa
bocca. Ordinò che una porta murata, da serrare ed aprire con due chiavi, fosse
collocata dietro la chiesa dove era quella entrata in colonne. Ciò al fine che
nessuno potesse entrare senza la parola dell’Arcivescovo d’Ibernia.
Ordinò
che una chiave fosse tenuta a Ibernia e che l’altra la tenesse l’Abbate
acciocché, per inganno o per malattia, senza licenza di questi due, nessuno
potesse entrare.
Questa
chiesa è officiata da santi monaci, i quali sono dodici e uno abbate.
Questa
entrata e questo purgatorio sono dietro all’altare, verso la porta orientale.
Al tempo di Santo Patrizio entrarono molte persone: molti tornarono e molti vi
rimasero.
Per
saper ammaestrare chi vi entrava, Santo Patrizio, a quelli che tornavano,
faceva scrivere ogni cosa di quello che dicevano di aver visto e sentito.
Così
fu il principio di questo luogo secondo ciò che narra Guerrino di sopra.
dette la lettera dell’Arcivescovo e come fu posto
ordine
per entrare
nel purgatorio di Santo Patrizio.
Giunto
Guerrino in quel luogo santo e devoto si presentò all’Abbate con quelli che lo
avevano guidato e gli dette la lettera dell’Arcivescovo d’Ibernia. Quando
l’Abbate ebbe letta la lettera guardò il Meschino nel viso, sospirò e disse:
“Oh
valente uomo perché hai così poca cura della vita”.
Gli
cominciò a dire di molti altri che erano andati e tornati e gli raccontò
dell’oscurità che quelli avevano veduto.
Guerrino
disse:
“Queste
cose messere non sono per me paurose perché io ho cercato in tutto il mondo per
trovare il padre mio e mi fu detto che a Ponente lo debbo ritrovare. Adesso
però voglio entrare in questo purgatorio per salvare l’anima mia e vi prego,
anche se la mia domanda è ignorante, che mi diciate se voi credete che in
questo luogo vi sia persona che mi sappia insegnare”.
L’Abbate
rispose:
“Quelli
che si troveranno prima di te ti sapranno dire tutte le cose del mondo ma io ti
prego carissimamente di non metterti in tanto pericolo e di prendenti a piacere
altra penitenza che sia a salvazione dell’anima tua, perché tanti di quelli che
entrano non escono e si crederà che tutti quelli che non tornano sono perduti.
La misericordia di Dio è grandissima ed è bene che tu abbia questa penitenza
perché se pigli una santa vita egli ti perdonerà. Noi abbiamo licenza dal Papa
di perdonare ogni peccato in questo simile affare”.
Il
Meschino, allora, rispose:
“Oh
padre mio non potrei rimanere per niente se io non andassi”.
Egli
gli disse:
“Io
voglio che tu pensi tre dì sopra questo andare poi vedrò quello che hai
deliberato di fare. In questo mezzo leggerai quello che avrai a tenere.”
Il
Meschino rimase con l’Abbate il quale sempre lo pregò, fino al terzo giorno,
per distoglierlo dalla sua andata.
In
capo di tre giorni gli domamdò:
“Che
animo è il tuo?”
Egli
disse:
“L’animo
mio è come era prima”.
Vedendo
che era disposto ad andare fece ordinare quelle cose e cerimonie che erano da
fare in simili faccende: doverlo ammaestrare sulle cose che doveva fare dentro,
durante il suo cammino, acciocché con vittoria potesse tornare fuori e il
nemico niente potesse contro di lui perché molti sono rimasti lì, pericolati in
anima e corpo: chi rimane è dannato.
Vedendo,
l’Abbate, che per nessun modo Guerrino volle restare, fece ordinare quelle cose
che erano necessarie per aiutarlo. Lo fece da capo confessare perché fosse ben
mondo e netto dei suoi peccati. Ordinò, come era di consuetudine per chi
entrava in questo purgatorio, di stare in orazione per nove dì e nove notti
nella chiesa e far tanta penitenza quanta a lui fosse possibile, come fece
Santo Patrizio in ginocchioni per nove giorni e nove notti: senza mangiare e
senza bere.
Per
questa rimembranza si sta in penitenza e si mangia una volta al giorno.
Così
fece il Meschino.
Finito
questo tempo l’Abbate gli domandò da capo se egli era deliberato di andare o di
rimanere.
Guerrino
rispose:
“Io
sono molto più desideroso di andarvi che prima”.
Raccomandò
le armi ed il cavallo all’Abbate e lo pregò, in caso di suo non ritorno, di
farne elemosina ai poveri per amore di Dio”.
Lo
pregò di pregare Dio per lui.
L’Abate
si fece dare un piccolo pane e disse:
“Questo
è il pane di Santo Patrizio, portalo in seno e se ti venisse fame mangiane un
po’.”
Poi
lo fece comunicare.
Guerrino
disse:
“Io
domandai di portare con me la spada”.
Egli
se ne rise e disse:
“Oh
cavaliere, in questo luogo non sono di bisogno le spade, ne le armi di ferro:
bisogna essere armato di fede, di amore, di carità e di speranza nel nome di
Gesù Cristo. Le altre armi che sono sopra la terra e che tu potresti avere non
ti gioverebbero a niente. Tieni a mente quello che io di dico affinché tu non
perisca per tua ignoranza. Quando tu entrerai nella caverna dovrai farti il
segno della croce, alzerai le mani al cielo, andrai dentro e dirai: Gesù Cristo
Nazareno nel tuo nome salvum me fac. Sempre queste parole abbi in mente
perché tu sarai minacciato e tentato dai demoni: non assentire a nessuna cosa
che vogliono e di ciò che domanderanno tu fa il contrario. Quando ti
comanderanno, con minacce o promesse,
di stare, andare o tornare tu non ubbidire. Abbi sempre in mente e sopra
tutto Gesù Cristo Nazareno nel tuo nome
salvum me fac. Se ti facessero alcuna violenza tu non ti turbare e non
ti adirare ma torna sempre a queste parole. Come le avrai dette tre volte sarai
liberato da questa violenza per quella volta. E così farai ogni volta che ti
diranno ingiurie perché tu non possa partire. Tanto maggior pena ti daranno
tanta più ne sosterrai per amore di Dio e ne meriterai. Troverai, allo
scendere, una scala di pietra molto lunga e scura: lunga più di un miglio e
tenebrosa. Quando avrai disceso la scala troverai un gran prato ed in mezzo
troverai una chiesa nella quale entrerai e farai le tue orazioni. Verranno a te
due vestiti di bianco, servi di Dio, i quali ti ammaestreranno su quello che
dovrai fare”.
Quando
l’Abbate ebbe dette queste parole, cantando salmi e sante orazioni, fece apparecchiare tutti i monaci. Partiti,
poi, con una croce innanzi, andarono alla porta dove si entra nel purgatorio.
Qui cantarono un certo offizio e poi aprirono la porta con le chiavi
dell’Abate.
Da
capo dissero l’offizio.
Aperta
che fu la porta l’Abbate si volse verso il Guerrino dicendo e domandando quello
che voleva fare e se voleva andare, ricordandogli le spaventose cose che
avrebbe trovato.
Gli
disse:
“Pensa
bene prima di entrare dentro perché volendo poi tornare indietro non potresti”.
Guerrino
rispose dicendo:
“Oh
padre, io vorrei essere ai piedi della scala”.
L’Abbate
aprì la porta con l’altra chiave dell’Arcivescovo d’Ibernia, si fece il segno
della croce e disse:
“Va
cavaliere al nome di Dio”
Egli
si fece il segno tre volte e disse:
“Gesù
Cristo Nazareno nel nome tuo salvum me fac”.
Passò,
poi, oltre la porta.
L’Abbate
serrò la porta con ambedue le chiavi e tornò alla sua chiesa.
e fu ammaestrato dai due servi
di Dio del tutto.
Entrato
Guerrino nella scura tomba, dopo che l’Abbate gli aveva fatto lasciar la spada,
di questo non si sconfortò ma cominciò a scendere con le orazioni e poi discese
tanto in giù, senza vedere nessuna luce di lume, e, penando come sempre, trovò
la scala.
Discesa
tutta la scala vide una gran bocca e, per più di un’ora, andò per una via piana
la quale gli pareva tornare indietro come se fosse messa in volta.
Dopo
che ebbe molto camminato vide la luce, rese grazia a Dio e giunto alla luce
fuori di questa tomba vide un gran prato.
Da
una parte del prato vide una grande chiesa.
Egli,
lodando Dio, andò in quella chiesa, si inginocchiò in un altare e, dicendo le
sue orazioni, ringraziando e lodando Dio, si raccomandò a lui.
In
questo mezzo entrarono nella chiesa due vestiti di bianco che non gli parevano corpi umani ma piuttosto divini e
la loro faccia sembrava che rendesse splendore.
Loro
non lo salutarono, Guerrino si drizzò e si gettò in ginocchioni ai loro piedi.
Essi
dissero:
“Dio
ti faccia forte dell’animo come sei stato forte a cercare la tua generazione”.
Egli,
mirando la loro faccia, non pose a mente quello che gli dissero e se gli
avessero domandato chi era suo padre.
Uno
di loro disse:
“Oh
Cavaliere noi siamo messaggeri di Dio, mandati a coloro che vogliono pentirsi
dei loro peccati, venuti in questo luogo per ammaestrarti. Però, se vuoi
tornare da dove sei venuto, tieni a mente le nostre parole”.
Lo
fecero levare dritto e lo fecero sedere in mezzo a loro due nel mezzo della
chiesa.
L’uno
gli disse:
“Figliolo
ti conviene esser forte e costante nella buona disposizione e avere fede in Dio
perché il nome che ti diede l’Abbate conviene che sia la tua difesa cioè: Gesù
Cristo nel tuo nome fammi salvo. Questi con cui tu avrai a che fare non sono le
fiere dell’India, non sono gli armati degli Arabi e di Persia: sono demoni che
non si possono vincere con armi di ferro ma solamente si possono offendere con
sante parole del sommo Dio. Però abbi in mente le sopradette parole e così
sarai libero ogni volta. Nondimeno ti porteranno in aria, per aspri ed oscuri
luoghi, e ti daranno tormenti ma tu non avrai paura perché se tu non ti offendi
da solo essi non ti possono far perire e fa in modo che essi non ti possano far
perire. Fa che non ti lasci ingannare da nessuna cosa che essi ti comandano
perché se tosto ubbidisci tu saresti morto e fa tutto il contrario di quello
che ti diranno. Non aver paura dell’acqua, ne del fuoco, ne di minacce anche se
ti getteranno per oscuri luoghi. Ti sarà mostrato il purgatorio e se tu vorrai
vedere l’inferno ancora ti sarà mostrato. Vedrai il paradiso con i suoi santi e
parte della divina potenza. Sappi che come noi partiremo da te questa chiesa
sarà piena di infernali demoni: si ingegneranno di ingannarti, di metterti
paura e ti mostreranno di essere buoni spiriti ma tu non vedrai mai un buono
spirito fino a quando non passerai un ponte dove i demoni ti abbandoneranno e
sarai salvo”.
Per
tre volte da capo gli dissero ogni cosa.
“Quando
tu vorrai sapere alcuna cosa ed essi non te la volessero dire scongiurali da
parte di Gesù Cristo nazareno e scongiurali che te la dicano”.
Detto questo si fecero
il segno della santa Croce e sparirono.
Egli rimase solo, a
sedere, in mezzo alla santa chiesa.
sono stati
nel peccato dell’accidia.
Essendo
partiti da lui i due messi di Dio la chiesa incominciò a tremare, l’aria
tuonava e gli pareva che sì gran vento traesse perché la terra tremasse come
alcune volte egli aveva già sentito e visto i venti, chiamati terremoti, che
escono dalla terra. Questi non erano terremoti: erano demoni infernali e subito
ne fu piena la chiesa. Molti, che avevano preso forma umana, andarono verso di
lui e gli dissero:
“Bene
sia trovato il Meschino da Durazzo”.
Egli
non intese perché non era stato ancora a Durazzo.
Detto
questo gli dissero:
“Poni
su la mano”.
Egli
pensò che avrebbe ubbidito all’invito cortese se egli avesse posto su la mano.
Ora
pensa in quanta poca cagione egli si era perduto.
Un
altro dal lato disse:
“Oh
Meschino da noi non ti devi guardare e ne devi avere paura perché noi siamo
creature di Dio ma abbi paura di questi altri. Noi siamo venuti qui per
difenderti da questi maledetti.
Egli
non poté stare che non dicesse:
“Come
potete salvarmi se non siete in grado
di aiutare voi medesimi e come mi salvereste se siete tutti dannati e cacciati
dal paradiso”.
Per
queste parole, minacciandolo di morte, gli furono poste sopra al capo mille pezzi
d’armi strane.
Veramente
se egli avesse avuto la sua spada l’avrebbe cavata contro di loro per le
minacce che gli facevano e gli gridavano.
“Torna
alla porta da dove sei entrato o noi ti uccideremo”.
Egli
gridò:
“Gesù
Cristo Nazzareno nel tuo nome fammi salvo”, come gli aveva insegnato l’Abbate e
i due vestiti di bianco.
Fu
preso e portato via da una grande quantità di loro, certo non senza paura
quando si vide così portare. Giunsero sopra una grande vallata la quale era
piena di fuoco: le fiamme andavano fino all’aria. Questo fuoco lo trasportava e
incominciava ad arderlo.
Era
pieno di anime ed egli, pieno di paura, gridò ad alta voce:
“Gesù
Cristo Nazareno per il tuo nome fammi salvo”.
Subito
si trovò fuori dalla fiamma.
Per
questo prese grande sicurezza e da quel punto in giù non si curava più di
niente e lodava Dio che lo aveva assicurato.
Essendo
egli sopra la terra al lato di questo fuoco incominciarono a dire:
“Noi
ti abbiamo cavato da questo fuoco ma ti getteremo dentro e non ti salverà il
tuo gridare”.
Sentì
gridare e cantare le anime che erano in questo luogo:
“Miserere
nobis domine secundum magna misericordiam tuam”.
Il
Meschino se ne fece meraviglia e disse a un demonio:
“Per
il vero nome di Gesù Cristo Nazareno dimmi che peccatori sono questi che sono
in questo fuoco, che le loro carni parevano tutte crepate e fesse, che da tutte
le parti gettavano sangue e cantavano il salmi di David”.
Risposero:
“Questi
furono accidiosi, negligenti, e sono dentro tutti i sette rami che appartengono
all’accidia, poi si pentirono ed ora spettano di purgare i loro peccati e
quando saranno purgati saranno salvi”.
Allora
conobbe questo essere il purgatorio, cominciò a piangere pensando come dovevano
essere le pene dell’inferno rispetto a quelle del purgatorio e si raccomandò a
Dio.
in aria e lo lasciarono cadere per la orazione.
Non
ebbe prima detto le sue preghiere che fu levato e portato in aria da questi
demoni e certo allora avrebbe avuto grande paura se non si fosse ricordato
dell’ammaestramento che gli fu dato dall’Abbate e da quelli due vestiti di
bianco.
Vedendosi
così portare gli parve essere, come alcuna volta per mancamento di tenebre,
uomo che si sogna di volare, essere portato da strane cose e per cose che mai
non furono.
Egli
non ebbe più paura pensando che non gli potevano nuocere, se egli non si
nuoceva da se medesimo.
Essi
stavano in un aere molto tenebroso e scuro, mischiato di grandissimi fuochi e
polvere e gli parve di vedere altri sotto di loro che in queste tenebre stavano
a gridare ed urlare mischiatamente tra queste fiamme di fuoco e tenebre.
Quei
demoni che portavano il Meschino dissero:
“Cavaliere,
o tu farai il nostro comandamento o noi ti getteremo in questo fuoco. Quello
che noi vogliamo da te è che non ti dia fatica di cercare le pene dell’inferno
e come noi ti avevamo dimostrato il purgatorio che tu torni indietro alla porta
dove tu entrasti e ti farai aprire dall’Abbate”.
Disse
allora:
“Oh
maledetti nemici di Dio, ingannatori degli uomini e della umana natura, io ho
con tanta fatica cercato quasi tutto il mondo, affaticando la mia persona sopra
i miei propri piedi.
Adunque
come mi rincrescerà la fatica, che senza mia fatica voi mi portate e siete miei
schiavi e servi. Volete voi e credete che di vostro signor voglio esser vostro
servo: l’animo mio non era di cercare l’inferno ma per queste parole lo voglio
cercare”.
Essi
adirati lo percossero aspramente e lo lasciarono cadere.
Egli
ebbe gran paura, cadde in quelle tenebre piene di fuochi puzzolenti nei quali
vi era grandissima quantità di anime, che erano parte per il ventre e ruggivano
forte per lo stringere dei denti con le mascelle, l’una contro l’altra, ma i
più avevano aperta la ventraglia, sia dell’una che dell’altra, e stavano tutti
volti all’oriente.
Alcuni
si sentirono gridare:
“Salve
Regina misericordie vita dulcedo e spes nostra”.
Egli
sentiva già il gran calore del fuoco e gridò:
“
Gesù Cristo Nazareno nel nome tuo fammi salvo”.
Subito
si trovò fuori da queste tenebre e vide molte anime che uscivano da questo
fuoco e cantavano:
“Osanna in excelsis deo”.
I
loro corpi parevano tutti riscaldati.
Egli
scongiurò un demonio che gli dicesse che peccato purgavano costoro.
Rispose:
“Il
peccato dell’invidia il quale principia tutti i sette peccati mortali e ha
sette ragioni d’invidia. Posso dire che l’invidia nasce con sette radici che
fanno sette radici e sette rami. Qui si purgano tutti quelli che non
partecipano alcuna cosa e poi conviene, a quanti si sono purgati di questo, di
purgarsi altrove per gli altri peccati mortali. Così conviene per ogni peccato,
che il maggiore si purghi prima dove è il suo purgatorio come si conviene di
grado in grado.
Solfore
e tenebre avevano già trapassato assai e come ebbe sentito questo peccato si
raccomandò a Dio e fu portato a furia verso Levante, fu gettato in un lago
pieno di serpenti e, preso per i piedi, fu trascinato. Allora fu pieno di paura
perché i serpenti andavano sopra di lui. Gridò il santo nome e subito fu
drizzato sopra un ponte che trapassava questo lago, da un lato all’altro sopra
un grande fiume, e questo ponte gli pareva sottile che un piede avanti
all’altro non poteva stare.
Egli
si volse per tornare e non vide in ponte.
Abbassò
gli occhi e vide infinite bocche di grandi serpenti e dragoni che pareva
aspettassero che egli cadesse.
Il
Guerrino ancora non aveva avuto maggior paura che questa e, tuttavia, gli
pareva di cadere e pur sarebbe caduto ma chiamò il santo nome e per la sua
misericordia il ponte si fece larghissimo.
Passò
di là da questo fortunoso passo e vide certe anime che passavano sulla via,
uscivano dal fiume cantando gloria in excelsis deo.
Egli
parlò a uno di questi spiriti e domandò quale peccato si purgava in quel luogo
di quei dragoni e quale peccato si assomiglia al dragone.
Egli
si ricordò della Sibilla e disse:
“Per
la superbia che loro avevano al mondo erano purgati in quel luogo”.
Domandò
Guerrino a quello spirito:
“Quanti
gradi di peccato ha la superbia?”.
Rispose:
“Ciascun
peccato mortale ha tre gradi e in se ha sette rami di peccato mortale. La
superbia porta la corona sopra tutti gli altri peccati perché è madre e radice
di tradimenti e di ogni altra iniquità”.
Egli
domandò, se era lecita la sua domanda, che gli dicesse chi era stato nel mondo.
Rispose:
“Io
fui uomo battagliero e passai il mare col principe di Taranto ad acquistare
Durazzo. Fui chiamato Lamberto da Pavia e morii combattendo con un Sarracino
chiamato Ziffaro Albanese: per la sua superbia morì. Uccisi colui che con me
combatteva e sono stato trentuno anni in questa pena. Se la divina potenza non
mi avesse, per il merito che io feci contro gli infedeli, accorciato il tempo
di quello che si doveva al mio peccato sarei stato qui duecento anni”.
Non
si poté più parlare che i demoni lo portarono via verso levante e a lui pareva
essere portato con grandissimi gridi e rumore.
Fu
posto sopra un monte molto alto e cominciarono a minacciarlo dicendo:
“Oh
tu ci adori o noi ti uccideremo”.
Cominciarono
a percuoterlo e a batterlo aspramente tanto che la sua carne era livida e
pesta.
Egli
si volse loro con pugni e cominciò come meglio poteva ma essi lo gettarono per
terra e nessuna difesa, contro di loro, poteva fare della sua persona e vide
quanta fu l’ignoranza, la superbia e l’ira che egli credette, per la sua gran
forza, difendersi da tutti loro. Essi lo avrebbero ucciso se non avesse detto
Gesù Cristo Nazareno e fu subito liberato.
Come il Meschino fu portato nel cerchio dei golosi,
dove trovò il Re di Polismagna che egli aveva
battezzato e da lui seppe alcune cose.
Libero
che fu, il Meschino, da questa superbia gli parve esser portato fino dalle
calde di Africa: arsa, secca e negra.
Sotto
di lui era un gran lume pieno di brutto fastidio tanto che l’aria era corrotta
di puzza. Un grido lo gettò su e lo lasciò andare. Egli era lasso e stanco che
appena si ricordava dove fosse e giunse in quel luogo brutto e pieno di tanto
fastidio. Ebbe grande paura, c’era tanta gente e per le percosse e paure che
egli ebbe quasi che non ci rimase stecchito in questo luogo. Vennero molti
demoni che lo tribolavano e molti ne vide gettare a robusti demoni, gettavano
loro per la gola di quel fastidio e dicevano:
“Queste
sono le delicate vivande che tu mangiavi al mondo”.
Allora
tutto veniva meno, se uno di quelli non gli avesse detto:
“Grida
come me tu che giaci, Iesus auté tranfiens per mediū illorū ibar”.
Per
questo ritornò in lui e gridò non come egli disse ma come disse l’Abbate e
subito fu fuori di pena.
Erano
molti che andavano cantando piano e dicendo pater de coelis deus in ferere
nobis.
Egli
voleva domandare che peccato era quello che purgavano in questo fastidio.
Un
demonio non lo lasciò, anzi lo trascinava fino ad un altro vallone pieno di
gente e di ruote.
I
demoni ci mettevano su le anime e tutte le troncavano in pezzi.
Si
radunavano insieme, per giudizio divino, e le trapassavano.
Vi
era una ruota piena di rasoi che li tagliavano e quelli che erano trapassati
gridavano ad alta voce - Credo in unum deum, il quale lo abbiamo riconosciuto
povero Dio -.
Uno
di questi corse verso il Meschino, lo chiamò per nome e disse:
“Il
Creatore del cielo e della terra sia tua guida e ti conduca al porto di
salute”.
Egli
si meravigliò e i demoni lo volevano pigliare ma gridò Gesù Cristo Nazareno e
li scongiurò per la divina potenza di Cristo che coloro che non molestino lui
ne quella anima, affinché parlassero, domandò così dicendo:
“Se
quella speranza ti condurrà presto alla divina grazia ti prego dirmi chi sei e, se non ti rincresce, dimmi alcune
cose”.
Egli
rispose:
“Io
fui Re e fui chiamato Polinador di Polismagna d’Egitto, che tu facesti battezzare,
e per grazia di Dio io sono salvo ma sono condannato a stare mille anni in
purgatorio per la convinzione che io avevo che la nostra fede di Saraceni era
falsa e vana e non avevo cercato di farmi battezzare”.
Il
franco Meschino gli domandò:
“Oh
Polinadoro che peccato ti fa portare questa pena?”.
Quello
quanto dritto disse:
“Il
peccato della gola il quale ha in se tre cattivi rami e per il suo pessimo
vizio fa peccare l’uomo nei sette peccati mortali”.
Ancora
domandò il franco Meschino:
“Come
si chiama quella parte dove sei tu?”.
Egli
rispose:
“Eretici
e beato chi al mondo se ne avvede avanti il punto della morte”.
Come il Meschino fu portato dove si purga il
peccato della lussuria e della vanagloria.
Ora
chi potrebbe contare tante cose quante il franco Meschino ne vide per questo
purgatorio di San Patrizio. Portato verso Levante gli parve esser posto sopra
alla montagna, onde esce in gran fiume chiamato Nilo. Ai piedi gli parve veder
la terra dove il caldo mare con la forza dei venti da volta alle estreme parti
del mondo. Era tanta la furia di vento, d’acqua e di fuoco che egli vedeva che
tremava di paura e questi suoi maledetti avversari lo ripresero e lo buttarono
nella furia della tempesta.
Quando
lo ebbero lasciato uno di loro disse:
“Vedi
là quella terra, vai là e sarai scampato”.
Egli
si ricordò che non avrebbe obbedito e si volse verso la fortuna del fuoco,
dell’acqua e del vento.
Nessuno
pensi che lui vi andasse senza grande fatica, ma gridò Gesù Cristo Nazareno e
sopra la terra trovò la salvezza.
Andava
per la riva di questo tempestoso fuoco e quando un’anima venne verso di lui
domandò ad essa per qual peccato era in questo tormento.
Quella
rispose esser lì per il peccato della lussuria e per la vanagloria, che rare
volte è lussuria senza vanagloria, e questa ha in se nove rami: di lussuria ne ha cinque e di vanagloria
quattro.
Hanno
ognuna sette gradi di ogni peccato mortale, salvo che la lussuria che ne ha
dalla superbia tre e dalla gola tre.
Detto
questo scomparve da lui.
dell’avarizia, dove trovò messer Brandisio.
Certo
fu fatto che queste medesime pene hanno quelli dell’inferno come costoro ma con
questa differenza: le pene dell’inferno non hanno speranza alcuna di minor
pena, ne di uscir mai.
Fu
portato sopra un mare, il quale bolliva e buttava così grandi bollori che
andavano fino al cielo.
In
questo luogo vi erano dentro molte anime e passato questo mare che bolle vide
un altro gomito di mare che bolliva forte e vide tra questi due mari una
montagna la cui cima toccava il cielo:
era coperta dal mezzo in su da divini splendori e molte anime salivano in su
per questa montagna. I suoi avversari lo gettarono in mezzo a quel mare che
bolliva. Egli gridò Gesù Cristo Nazareno, fu posto ai piedi di quella montagna
e certe anime aveva di lato.
Una
di quelle, che pareva allora uscita da quel mare, come lo vide gli disse:
“Non
sei tu il Meschino?”.
Egli
rispose di si e gli domandò chi era.
Egli
disse:
“Io
sono l’anima di Brandisio che incoronasti in Media e prima mi cavasti dalla
prigione del gigante”.
Il
Meschino gli fece festa e domandò da quando era partita l’anima dal corpo.
Rispose:
“Il terzo anno dopo che
tu mi incoronasti signore e fui morto a furor di popolo per la mia avarizia che
è cagione di molti mali. Ma i primi che si levarono contro di me furono due
figlioli piccoli che io avevo e come sentirono che io li volevo battezzare,
benché con le mie mani li avevo battezzati, ma li volevo battezzare dai
Sacerdoti per ridurre la terra al santo battesimo, essi corsero sopra e fui
morto e non so quello che dei due figlioli avvenne. Raccomandai l’anima mia a
Dio e sono venuto qui in questo luogo per avarizia. In questo mare si purga
tutto il peccato dell’avarizia, che contiene in se sei peccati mortali e anche
la crudeltà e il tradimento che ha tre rami”.
Il
Meschino gli domandò se quando hanno purgato i peccati se ne vanno a vita
eterna e se le loro pene possono per alcun modo sminuire.
Rispose
messer Brandisio:
“Io
ho purgato le mie pene e i demoni non hanno più libertà sopra di me. Io
impiegherò cento anni a salire sulla cima di questo monte se la carità e le
orazioni dei vivi che sono al mondo non mi aiutano e mi fanno accorciare il
tempo. Poiché le elemosine e le orazioni che si fanno sono distribuite fra
tutte le anime del purgatorio”.
Allora
disse il Meschino:
“Dunque
il bene che si fa per l’anima va in comune come un popolo”.
Disse
messer Brandisio:
“Il
bene che si fa per un’anima vale a quella sola e non in comune e quel bene la
fa montare alla gloria per quanto è quel bene e le altre anime hanno grande
allegrezza, perché quelle che stanno in peggior fuoco di purgatorio molto si
rallegrano di un’anima che va in paradiso, cioè in luogo di gloria. Questa è la
cagione che le nostre pene sono tanto minori che quelle dell’inferno perché noi
ci rallegriamo del bene, che abbiamo ferma speranza. Quelli dell’inferno, al
contrario, che del bene si contristano, non hanno speranza se non di peggio”.
Disse
il Meschino:
“Oh
messer Brandisio io tornerò al mondo per grazia di Dio e vi prometto che se io
trovo il padre mio vi aiuterò a salire questo monte più in fretta”.
Queste
parole fecero molto rallegrare messer Brandisio che alzò le mani e disse:
“Dio
ti dia grazia di ritrovarlo”.
Pronunciate
queste parole fu portato via dai suoi avversari.
dove i demoni lo volevano ingannare e come
la santa orazione lo liberò in tutto.
Tirando
i due avversari verso le parti orientali per il rovente sabbione il Meschino
gridò:
“Gesù
Cristo Nazzareno nel tuo nome fammi salvo”.
Allora
lo presero per l’aere e lo portarono via.
Gli
parve di essere nelle parti orientali dove si leva il Sole alla fine di Gemelli
e al principio di Cancro.
Vide
una grande pianura nella quale vi erano grandi fumaglie, dalle quali uscivano
fiamme verdi, gialle e nere, di diversi colori, e fosfori che gettavano grandi
puzzori: tutto l’aere era oscuro per il gran fumo che ne usciva.
Il
Meschino fu tirato in mezzo a questa oscurità e posto nel mezzo di questa
pianura vide molte anime sotterrate, in questa terra brutta, alcune fino alla
gola, alcune fino alle braccia e alcuni fino al petto. Tra di esse ve ne erano
alcune che erano già quasi fuori e cantavano:
“La
pace di Dio sia in cielo e in terra a tutte le creature”.
I
demoni avevano fatto una fossa molto profonda e presero il Meschino per
gettarlo in quella gridando:
“Qui
non ti salveranno le orazioni”.
Lo
gettarono in quella fossa e uno di loro disse:
“Non
fare per ingannarlo”.
Gli
porgeva la mano e gli diceva:
“Pigliami
che io ti caverò fuori”.
Egli
si ricordò e per non ubbidirgli lo cacciarono nella fossa.
Gli
gettarono la terra addosso gridando:
“Statti
con questi furiosi, pieni di ira e nemici di ogni temperanza. Tra i sette
peccati mortali questo molto dispiace a Dio perché ha in se tre cattivi rami”.
Mentre
essi dicevano queste parole lo coprirono di terra. Gli giunse tanta paura che
credette in tutto di essere morto ma pure lo spirito con il suo intelletto gli
tornò alla memoria.
Chiamò
Gesù Cristo Nazzareno e fu subito da quella pena libero.
Ma tu
peccatore non pensare di essere liberato da questa pena dei peccati mortali per
il dire Gesù Cristo Nazzareno: se tu sarai in peccato mortale e non sarai
confessato; perciò si deve spesso lavare e togliere il palidume dell’anima più
tosto che quello del corpo perché quello se ne va con l’acqua del pozzo ma
quello dell’anima vuole un’altra lavanda più fina.
Avendo
il Meschino lasciato il peccato dell’ira,
tutti quelli che hanno alcuna specie di quel peccato e così tutti gli
altri, di grado in grado, fu portato verso le parti settentrionali e trovò una
maggior pianura che egli avesse ancora veduta.
Vide
grande quantità di anime e si meravigliò perché la maggior parte erano senza
pena: ballavano e cantavano. Domine sancte pater onipotens eternae deus
onde egli credette di essere tornato mondo, gli parve di vedere tanti re e
signori che si davano a mondani piaceri.
Un
demonio gli disse:
“Poiché
tu non vuoi purgare i tuoi peccati tu starai con questi signori in questo luogo
a divertirti come stanno loro”.
Lo
posero presso quelle anime che si volsero tutte verso di loro e gridavano ad
una voce gloria patri & filio & spiritui sancto.
I
demoni gli dissero:
“Sta
verso loro, non odi tu quel che cantano?”.
Egli
cominciò ad andare indietro per non ubbidire ai demoni e tutte quelle anime
fecero segno di allegrezza quando lo videro andare indietro.
Una
di quelle anime gridò:
“Non
ubbidire che tu non verresti qui anzi andresti all’inferno e sappi che noi
facciamo penitenza della nostra vanità”.
Gli
mostrò i loro vestimenti che erano tutti di ghiaccio grezzo, pesante e lustro,
che parevano di cristallo.
Per
questo egli tremò di paura e domandò chi era quello che lo aveva confortato
pregando Dio che lo cavasse da quelle pene e riposasse l’anima sua in vita
eterna tra le anime beate.
Rispose
e disse:
“Io
fui con te nella bastìa a Costantinopoli contro il Re Astiladoro, fui figliolo
del Re di Stive chiamato Almansore, fui fratello di Archilao. Poiché io
combattevo per amore di Gesù Cristo, quando fui morto Dio ebbe misericordia di
me: morii confessato e comunicato. Prima mi ero dato ai diletti mondani ma
sempre pensavo al tradimento contro il signore e alla morte mi salvai”.
Non
ebbe compite le parole che il Meschino fu preso e portato in cima al monte
presso la tramontana, ove era tanta freddura che credette per vero morire.
Qui
vi era una grandissima caverna, tonda come un grandissimo pozzo. Da quel pozzo
usciva uno sfortunato vento: era tanto freddo che tutta la riva riempiva di gran
freddura.
Egli
batteva un dente contro l’altro e tutto tremava di grandissima paura. Volendosi
volgere al cielo e raccomandarsi a Dio non ebbe la forza di poterlo fare per il
gran freddo.
I
demoni lo presero e lo gettarono in quel pozzo col capo di sotto.
Lui
rovinando a valle disse:
“Gesù
Cristo Nazareno nel tuo nome fammi salvo”.
Fu
posto sopra la riva di un gran lago
tutto ghiacciato che pareva cristallo. Vi erano dentro molte anime, alcune in
fondo, alcune in mezzo e alcune in fondo murate in questo ghiaccio il quale era
più duro dell’acciaio temperato.
Vide
un demonio nel mezzo di quel ghiaccio che aveva sei ali nere e sempre le menava
come un uccello che volasse, era fino alla cintura nel ghiaccio e quello che di
sopra lui vedeva, alla sua stima, era alto sessanta gomiti, aveva sette corni e
tre facce. Ogni faccia aveva una gran bocca con due denti da elefante, aveva
rasente al ghiaccio una bocca che era più brutta e più spaventosa che l’altra
di sopra e da questa bocca più in giù non poté egli vedere le facce del capo
che erano di tre colori: l’una era negra, l’altra nera e gialla.
Aveva
in ogni bocca un’anima, aveva sette serpenti grandissimi intorno alla gola e al
capo, le sue ali erano maggiori che le vele delle navi che vanno per mare,
tanto erano grandi e tutte negre e non erano di penne ma erano come quelle dei
pipistrelli.
Intorno
alla pancia ed al petto aveva un serpente, cinto di colore verde e maculato di
molti colori. Questo serpente aveva sette corni in testa, era tanto spaventoso
e brutto che non poté soffrir di guardarlo.
Si
volse con paura e, con sospiro, disse:
“Gesù
Cristo Nazareno fammi salvo”, come era solito dire.
Vi
erano intorno tanti demoni e non credeva che alcuna persona mai al mondo li
potesse stimare: ne era piena l’aria di sopra, il ghiaccio di sotto e il mezzo
da ogni parte.
In
mezzo a loro avevano grande quantità di anime le quali bestemmiavano il cielo,
la divinità, il mondo e chi li aveva creati.
Il
Meschino s’avvide, per queste bestemmie, che era l’inferno e, poi che fu
gettato in quel pozzo, a lui pareva andar verso levante perché lasciarono il
purgatorio e entrarono verso ponente.
Come il Meschino vide Rapilla, sorella di Validor,
vide Giuda Iscariota, vide Almalech del
vecchio Testamento.
Avendo Guerrino veduto quanto è
diventato oscuro e brutto quell’angelo che tra tutte le cose create era la più
bella figura che Dio facesse mai, innanzi l’avvenimento del signore, essendo
tirato dai suoi avversari partì e fu lieto che, stando loro all’uscita del lago, in quel luogo non lo potevano
portare.
Il
Meschino vide un femmina fitta nel ghiaccio fino alle mammelle che si mordeva
le mani e aveva intorno alla gola un gran serpe che spesse volte le pungeva le
mammelle, allora le cresceva il dolore ed ella traeva gran grida e la serpe gli
serrava la gola.
Egli
si fermò e le domandò perché era stata messa in tanta pena.
Rispose:
“Per
colpa del cavaliere traditore che mi ingannò;
era chiamato il Meschino” .
Egli
non la riconobbe perché era nera come al mondo viveva.
Domandò
alla donna:
“Chi
è quel demonio che è tanto grande?”.
Gli
rispose:
“Quello
è il Re dell’inferno: Satana”.
Domandò:
“Chi
sono quelli che ha in bocca?”.
Rispose:
“L’uno
è Giuda Iscariota che tradì Cristo e l’altro è Cassio che
tradì Cesare di Roma, l’altro è il primo
Dario Re di Persia e quello che egli ha piantato nel gesto del bellico è
Almalech, figlio bastardo di Gedeon giudice d’Israele.
Domandò
di quelli che vide nel fondo del ghiaccio con il capo di sotto.
Rispose:
“Si
uccisero se medesimi poi che ebbero fatto alcuno gran tradimento”.
Egli
le chiese:
“Perché
non sei con loro tu che uccidesti Validor, tuo fratello, e poi ti uccidesti?”.
Ella
rispose:
“Non
sarò piantata fin tanto che verrà quel traditore: Guerrino, per il cui amore
venni in questa fossa d’abisso ma io sarò contenta di andare giù nel profondo?
“.
Sentendo
uno dei demoni disse:
“Questo
è lui”.
Rampilla
levò gli occhi in su e lo riconobbe.
Allora
disse:
“Ora
sprofondatemi perché la mia pena non sarà tanto grande ora che io ti ho veduto
in questo luogo, traditore”.
Egli
disse:
“Oh
Rampilla ti raddoppierò la pena perché tu starai sempre in queste pene e in
maggiori. Io mi salverò e tu maledetta ti roderai”.
I
demoni la trassero fuori dal ghiaccio e la volsero col corpo di sotto.
Al
lato al Meschino avevano fatto un’altra sosta.
Presero
il Meschino dicendo:
“Tu
rimarrai appresso a lei”.
Lo
presero per girarlo nella fossa e uno di loro gridò:
“O tu
dirai l’orazione con la quale tu sei campato o noi ti sotterreremo qui in
questa fossa e qui tu rimarrai”.
Ora
dimmi lettore che modo il Meschino doveva tenere e come doveva fare pensando
che se egli diceva l’orazione ubbidiva ai demoni e non dicendola avevano possanza sopra di lui.
Vedeva
quelle anime così serrate nel ghiaccio, come mai pietra fu così serrata da colonna appresso ad altre
pietre.
La
divina virtù ispirò il suo cuore, non disse l’orazione visibilmente ma egli nel
suo cuore la disse e subito fu portato via da quel luogo non appena egli ebbe
pensato di dire Gesù Cristo Nazareno nel tuo nome fammi salvo.
Allora,
fra se stesso, disse:
“Oh
somma potenza di Dio, certo nessuna cosa si può nascondere dinanzi alla tua
santissima faccia ma tu vedi e conosci il segreto del cuore e nessun altro
spirito conosce il segreto degli uomini e delle creature”.
Egli
non disse le parole al cospetto dei demoni e non ubbidì loro ma solo al
cospetto di Dio fu palese e fu salvo e libero da quella pena.
Però
non ci sia nessuno che si creda di fare alcuna cosa segreta che Dio non lo veda
perché a lui nessuna cosa è segreta.
Mentre
egli era portato dai suoi avversari udì grande quantità di anime in questo
profondo ghiaccio e così intorno al ghiaccio erano molte pene, molti stridii,
pianti e ruggiti di battimento di denti.
Ancora
intorno al ghiaccio erano infiniti seppelliti fino alla cintura.
e vide diverse pene.
Benché
il Meschino non credesse di tornare verso Ponente fu portato a quel profondo
cerchio ghiacciato, pieno di stridori di denti, di maledette anime di traditori
e di iracondi. Nel detto cerchio sono mescolati tutti i sette peccati mortali.
Come
Satana volle mettere la sua sedia in Aquilone perché per superbia voleva essere
simile a Dio altissimo subito, per colpa di tutti i peccati, cominciando dalla
superbia, tutti i vizi e le iniquità fu posto nel centro della terra perché
aveva desiderato essere nella sommità dell’altezza dei cieli al pari di Dio.
Così, per giusto giudizio, precipitò nella più profonda bassezza della terra e
appresso a lui furono i suoi spiriti seguaci, cacciati dal cielo di tutti i
nove cori degli Angeli, cioè quelli che entrarono in quella superbia con lui e
non pensarono a chi li aveva creati, e furono Serafini, Troni e Cherubini,
Dominazioni, Virtù, Potestà, Principati, Arcangeli e Angeli e così di tutte
queste legioni fu questo l’ultimo cerchio, benché tutti tengano di sette
peccati mortali, perché, peggio che tutti gli altri, hanno ogni ben goduto.
Sono pieni sempre di grande ira e di grande rabbia, sempre si divorano e mai
non smettono di tribolare le anime e se esse vanno per l’inferno, fanno più
male degli altri spiriti e non possono uscire da questo cerchio, cioè dai muri
dell’inferno, perché sono tutti malvagi, pessimi, che tutto il mondo
metterebbero in pericolo.
Solamente
gli altri cerchi sono quelli che vanno a torno e ingannavano l’umana natura e
da questo cerchio chiamato cerchio dell’ira e di traditori entrarono e vennero
su, in un altro cerchio, e si vide dalla man destra un grossissimo muro e
dinanzi un altro e giungevano al suo parere fino al cielo del fuoco e perché
egli non vedeva il cielo ma una fiamma gli pareva quei cieli e non vedeva dove si
potesse passare ma si volse a man sinistra andando per quel caliginoso aere e
vide molta moltitudine di anime che erano nelle mani di molti demoni i quali le
spezzavano come il cuoco spezza la carne e al lato loro, più presso al fondo
dell’abisso, erano molti nudi pieni di rogna e tigna e sopra loro piovevano
fiaccole di fuoco.
Desiderando
egli sapere di quelli tagliati a pezzi domandò ad un demonio:
“Chi
sono costoro così tagliati a pezzi e dati a mangiare ad uccelli e fiere
infernali che li divorano?”.
Egli
tacque e non rispondeva.
Il
Meschino si ricordò di scongiurarlo e lo scongiurò.
Il
demonio disse:
“Questi
che sono così rognosi e che hanno così grossa scabbia sono i falsatori di
alchimia e di monete. Questi che sono al macello come carne per uccelli furono
falsi e traditori e pieni di cattive intenzioni che tutto il tempo loro si
dilettavano a stare coi signori e si sforzavano, con ogni ingegno, di tradirli
con i loro inganni, fingendo per cavarne benefici. Non avevano riguardo se era
bene o male e molti signori per questi motivi sono stati messi al bando dalle
loro città e sono periti.
Tanto
a punto disse questo demonio al Meschino che di nuovo lo scongiurò per sapere
oltre e andando più oltre vide un vallone pieno di brutti vermini, serpenti e
draghi grandissimi. Vide dentro grande quantità di anime, tra le quali
riconobbe l’anima del grande Macabeus, che lui uccise a Tartaria, vide la
superbia e vide il superbo Artilaro morto che uccise nella Morea.
Egli
domandò allo scongiurato demonio che peccato avevano quelle anime.
Gli
rispose:
“Questi
furono serpenti al mondo perché sempre si dilettavano di stare nei boschi per
assassinare e rubare e al mondo sono chiamati ladroni”.
Essi
passarono più in su e lasciarono i serpenti, i dragoni e i fastidiosi vermini
nel fuoco. Trovarono un lago di fuoco che girava sempre e molti spiriti, molti
maschi e femmine erano dentro.
Domandò
chi erano questi.
Gli
fu detto essere stati traditori e lusinghieri.
Il
Meschino disse:
“Se
sono stati traditori perché non sono nel ghiaccio?”.
Rispose:
“Questi
erano traditori che ai nemici, ai quali facevano guerra, e che tenevano la loro
roba, cercarono, per tradimento, di
riacquistarla o difenderla”.
Passati
questi trovarono molti impiccati e gli uccelli infernali si pascevano di loro.
Domandò
di questi.
Gli
dissero che erano gli scellerati che usavano bestialmente la loro moglie e
guastavano il santo matrimonio.
Appresso
vide un lago d’acqua che bolliva ed era pieno di anime, la riva del fiume era
coperta di fuoco; vi era un demonio,
era così grande che copriva tutto il lago.
Il
Meschino domandò di questo peccato, perché quel demonio aveva più di mille
gambe e trista quell’anima che gli veniva alle mani.
Domandò, ancora, come aveva nome quel
demonio.
Rispose:
“Quello
è il peccato di avarizia”.
Passato
questo gli disse:
“Quel
demonio si chiama prodigalità”.
Poi
trovarono genti che avevano vestimenti di bronzo, egli andò e toccò ad uno il
vestimento indosso.
Tanto
quanto egli toccò della pelle delle dita rimase.
I
demoni se ne risero.
Egli
ebbe gran pena nondimeno domandò che gente era quella ma prima disse:
“Gesù
Cristo Nazareno nel nome tuo fammi salvo”.
Della
pena fu guarito e giunsero al muro che egli aveva l’altra volta veduto.
I
demoni si volsero a man destra per
l’uscita dell’altro cerchio nel quale erano entrati nel terzo a venir in su non
potendo essi andare per mano sinistra perché a causa dell’alto, grosso e negro
muro, che vi era, non si poteva passare.
Allora
egli domandò a quello scongiurato demonio che voleva significar questo muro.
Egli
in questa forma rispose alla sua domanda:
“Tu
mi hai per modo e per tal segno scongiurato che mi è forza dire quel che questo
vuol dire. Ora sappi che l’inferno ha sette cerchi come sono sette i peccati
mortali, in ogni cerchio vi è un peccato mortale. Ogni anima che entra
nell’inferno non può andare alla sua pena, ovvero luogo che gli è dato, senza
ch’ella non passi per tutti i luoghi che sono innanzi al suo luogo e se ella è
determinata al ghiaccio per più suo dolore che ella vada a tutti i cerchi,
poiché non può fare altra via che questa perché questo muro che abbiamo da man
sinistra dura dal profondo fino alla cima di sopra. Ora che noi lasciamo da man
sinistra avremo volto per tutto l’inferno perché questo arco è l’ultimo, al suo
uscire andremo alla sinistra tanto che noi giungeremo all’ultima porta. Quanto
più andiamo in su più s’allarga l’inferno fino all’ultimo muro della perduta
città di Satanasso, dove, all’uscita, vedrai l’entrata di questa oscura
prigione dentro la terra e quello si chiama atrio dell’inferno.
Diverse
pene e diversi tormenti vide in questo terzo cerchio il Meschino; salendo il
più delle volte era portato.
La
prima pena che egli vide, di questo cerchio, fu un lago di sofferenze mischiate
nelle quali molte anime bollivano in quella confusione e nel mezzo era un grande albero le cui
foglie erano ferri taglienti. Le anime vi montavano su in gran moltitudine per
fuggire il gran fuoco del lago e come giungevano in cima le altre che andavano
loro appresso le facevano cadere su quei ferri e si facevano di loro molti
pezzi e continuamente si fanno.
Così il
demonio disse:
“Questi
sono i barattieri e bestemmiatori di Dio e dei santi”.
Si
volsero a gettare il Meschino sopra il grande albero ma egli gridò Gesù Cristo
Nazareno e fu liberato.
Poi
vide le genti che andavano ed avevano voltato tutto il viso dietro: alzavano il
capo al cielo, andavano tra sassi e spine e stracciavano e rompevano tutte le
loro membra.
Gli
fu detto:
“Quelli
al mondo furono indovini”.
E
pure girando intorno all’inferno si vide moltitudine di caldaie che non si può
credere che tutto l’universo ne avesse tante. Erano piene di acqua, braci
accese e cenere rovente e dai demoni sempre le anime vi erano gettate dentro.
Egli
domandò che anime erano quelle che gli parevano esser diventate masse di filo.
Gli
fu risposto:
“Queste
furono anime di giudici, notai, procuratori e ogni gente che vive nei palazzi,
a corte di rettori e fanno torto ad altri per danari”.
Passato
questo, trovarono una fossa e disonesta bruttura piena di monaci e religiosi.
Poi in un lago di questo medesimo stretto trovarono i ruffiani e le ruffiane.
Appresso a loro trovarono il peccato della gola mischiato in questo medesimo
fastidio.
All’uscir
del terzo cerchio giunsero al soprascritto muro, entrarono nel quarto cerchio
lasciando il muro a mano destra e volgendosi da mano sinistra per il cerchio
del mezzo i suoi diavoli avversari gli facevano molte ingiurie.
Come il Meschino entrò nel quarto cerchio dove vide
punire i
fraudolenti, i soldati, i sodomiti, i vanagloriosi,
i disperati, i lussuriosi e dipoi entrò nel quinto
cerchio
dove vide
punire i superbi.
Benché
Guerrino fosse percosso dai demoni non poteva però far tanto che nella sua
volontà; uscendo dal terzo cerchio si volse come per forza nel quarto e vide
anime piene di serpi volte alla gola e alle braccia: da per tutto i demoni
davano loro diversi tormenti.
Guerrino
domandò che peccato avevano commesso.
Gli
fu detto come per fraudolenza erano perduti. Questa era una gran moltitudine di
femmine e maschi e presso costoro erano molti che avevano fitti pali in gola e
avevano legate le mani di dietro. I pali erano fitti in terra e costì stavano
appiccati infiniti uccelli infernali che li divoravano.
Guerrino
domandò ai demoni che anime erano queste.
Gli
dissero che avevano lasciato le loro proprie arti per andare vivendo di rapina
e al soldo; più tosto andar stentando e facendo male che voler stare ai loro
mestieri.
Passati
questi trovò una gran pianura dove nevicava fuoco e la terra era piena di
cenere rovente: ogni cosa pareva fuoco.
Una
grande quantità di anime, quali a giacere, quali andavano e quali stavano
carbonizzandosi per il fuoco che fioccava loro addosso.
Il
Meschino domandò loro che gente fosse questa e per quale peccato era in questo
luogo perduta.
Rispose:
“Questi
sono stati al mondo sodomiti, nemici di Dio e dell’umana natura”.
Trovò
molte anime dannate per la vanagloria del mondo, appresso trovò i disperati
piantati col capo in giù, poi trovò gran quantità di anime trasportate da
terribili venti in fiamma di fuoco.
Gli fu
detto essere questo il peccato della lussuria e gli pareva vedere in questa
pena molte più femmine che uomini.
Passato
questo peccato giunsero al muro al di sopra di tutti i cerchi dell’inferno e in
questa parte del quarto cerchio di lussuriosi domandò se solamente per lussuria
erano all’inferno.
Gli
fu detto che i più erano lì per lo scellerato vizio del diletto che presero e
perché due peccati son naturali e conviene che si facciano, ma quando li fai
oltre l’ordine della ragione tu li fai contro Dio e la natura: questi sono la
gola e la lussuria, i quali usandoli secondo la ragione li chiamano originali e
non mortali.
Giunto
al muro che serra tutti i cerchi dell’inferno i demoni lo volsero alla destra
mano e passarono nel quinto cerchio venendo all’uscita e il terzo all’entrata;
vide un lago di sangue che bolliva: vi erano dentro molti incoronati e avevano
intorno grandissima schiera di demoni che si ingegnavano di pigliare queste
anime.
Egli
domandò che anime erano quelle.
Gli
fu risposto:
“Questi
furono i superbi tiranni Re, Duchi e Principi crudeli. Vi sono dentro ogni
specie di signori che in questi peccati furono coinvolti”.
Detto
questo gridarono dicendo:
“La
tua stanza sarà qui con questi superbi tiranni”.
Si
gettarono con lui in questo stagno di sangue.
Egli
ebbe grande paura, gridò Gesù Cristo Nazareno e subito fu messo alla porta di
un castello.
Egli
passò per il mezzo e vide molti signori ardere nel fuoco.
Domandò
allo scongiurato demonio il quale gli disse:
“Questi
furono i superbi Troiani”.
Poi,
fuori dal castello, trovarono grande moltitudine di anime armate che
combattevano e tutte le loro armi erano di fuoco.
Il
Meschino domandò di questi.
Gli
fu detto che erano i superbi signori Greci e scontavano la penitenza di quelli
che si dilettavano nel mondo stando sempre nel fuoco.
Passati
questi Troiani e Greci trovò una fossa di fuoco piena di sepolture e le
sepolture erano piene di anime.
Il
Guerrino domandò di questo.
Gli
fu detto queste essere le anime degli eretici.
E qui
giunsero al fine di questo quinto cerchio.
dove trovò quelli che al mondo
si avevano
fatto adorare.
Benché
il Meschino sostenesse la grande fatica di stare contro ai demoni, che non l’ingannassero,
nondimeno per la volontà di sapere confortare altri, se mai al mondo tornasse,
egli tirava a domandare molte cose.
Giunto
al muro che serra i sette cerchi dell’inferno, varcarono l’apertura che era nel
quinto cerchio, andarono a mano sinistra ed entrarono nel sesto cerchio, lì
volse la schiena del predetto muro e trovarono un gran muro a traverso che
serrava questo cerchio con una altissima torre tutta nera ed oscura.
Aveva
tre gironi di muro intorno per i quali gironi gli conveniva passare e c’era una
scritta sopra ogni porta di questi tre gironi: un verso dentro e uno di fuori.
Il
primo verso diceva: contentione e elettione.
La
seconda porta aveva un verso che diceva: elettione e malitia.
Sulla
terza porta ad uscire fuori diceva: desiderio senza ragione.
Di
questo egli domandò e gli fu detto sopra il primo verso: contentione e
elettione cioè di contenere il peccato, ritrarlo per diletto e pigliarlo
per una consuetudine era più peccato mortale e in peccato mortale vive chi
questo fa.
Del
secondo che diceva elettione con malitia, questo è maggior peccato
perché elegge il peccato, conosce che fa male e pure segue il peccato, pecca
nello spirito santo, è peccato mortale e
più che la iniquità contro Dio.
Il
terzo che diceva desiderio senza ragione è contro Dio e contro il
prossimo, è peccato mortale.
Questi
tre versi contengono tutti i sette peccati mortali; però sono chiamate, queste
tre lettere, furie infernali. I poeti e i filosofi chiamano il primo Meghera,
il secondo Leto e il terzo Tesiphone.
Passate
queste tre porte vide una valle molto focosa, piena di carboni accesi e vi era
gettato sempre dentro infinito zolfo. Molte croci vi erano dentro e molta gente
legata sopra queste croci, confitta col capo.
Egli
domandò che genti erano quelle e gli fu detto che queste anime furono genti che
al mondo si fecero adorar per dei, come furono molti pagani, uomini e femmine,
e questi sono condannati in questo tormento.
Passato
questo vide una grandissima quantità di anime, erano così tante che occupavano
mezza parte di questo cerchio; si mordevano le mani, erano fitti nel fango alle
caviglie, non restavano d’andare per quel pantano e bollivano di vermi d’ogni
ragione; gravati da grandi pesi dietro a loro e, a vista, parevano molto faticati. Certi di loro avevano
grandi carghi addosso e per tutto questo bestemmiavano e maledicevano tutte le
cose visibili, i loro padri e la loro generazione e spesso al cielo facevano
gesti osceni ed erano coperti di bisce negre e brutte.
Egli
domandò di costoro.
Gli
fu detto che erano condannati per il peccato dell’invidia che portavano al
mondo ad ogni persona.
Il
Meschino domandò di certi che fra loro giacevano e gli altri ponevano loro i
piedi addosso.
Rispose:
“Molti
sono che hanno invidia del ben d’altri, perché se quello che invidiano non
avesse quel bene non toccherebbe all’invidiatore niente: loro però invidiano
senza speranza d’esso. Ebbene questa è invidia con iniquità e questi sono
quelli che vidi con il viso volto nel puzzolente pantano.
Quelli
che sono fitti fino al ginocchio furono invidiosi di molti che ebbero degli
onori al mondo e che costoro aspettavano di avere per loro e quelli che vanno
sopra al puzzolente pantano portarono invidia a molti virtuosi perché non
potendo avanzare di virtù si struggevano e per questo lasciavano il bene che
avevano incominciato perché avendolo seguitato non sarebbero venuti a questa
parte”.
Passato
questo peccato dell’invidia vennero, alla fine di questo sesto cerchio, e
trovarono il muro che serrava tutti i cerchi dell’inferno.
Si volsero
alla destra mano e ivi entrarono nel settimo cerchio dell’inferno.
Maometto e i suoi seguaci e trovò i Romani e gli
Albani giudicati
a
combattere tre volte al dì armati a battaglia.
Montando
i demoni sempre all’insù, finita la via del sesto cerchio, si volsero a man
destra e la prima cosa che trovarono fu una grandissima ruota con denti di
ferro aguzzi ed erano più di cento demoni a volgere questa ruota ed avevano
un’anima la quale menavano sopra questa ruota tanto che tutta era scarnata e
disfatta, poi la ricomponevano e la
mettevano alla ruota.
Guerrino
domandò chi era quell’anima.
Gli
risposero che quella è l’anima di Maometto ed egli incominciò a ridere.
Essi
domandarono perché rideva.
Disse
perché si faceva beffe di quelli che adoravano Maometto per loro Dio.
Un
demonio disse:
“Non
lo adorare tu acciocché non sia perduto con lui”.
Come
doveva fare il Meschino poiché se lo adorava offendeva Iddio e se non lo
adorava ubbidiva al demonio ed era perduto. Subito si gettò in ginocchioni con
le mani giunte e gridò Gesù Cristo Nazareno. I demoni subito lo portarono via
per una pianura che è serrata tra due montagne piene di anime che tutte
ardevano nel fuoco: molti stavano a sedere nel fuoco e molti n’erano ritti e
non si muovevano. Guerrino vide molti Re tra loro e la maggior pena che avevano
era bestemmiare Maometto.
Gli
fu detto:
“Qua
vengono tutti i suoi seguaci, fra i quali ne conobbe molti che egli aveva
uccisi.
Passata
questa gente trovò una grande quantità d’armati e gli fu detto che ogni dì, tre
volte, facevano battaglia.
Le
armi erano dentro tutte di fuoco e gli fu detto che erano Romani e Albani.
Egli
domandò:
“Perché
sono in questo luogo?”.
Risposero:
“Per
tre cose: per superbia, per invidia e per vanagloria. Per questi tre peccati
sono in queste parti, tratti dagli altri dell’inferno”.
Oh
quanti nobili Signori e Principi antichi Romani gli furono mostrati.
Poi
vide molto appresso a loro Cartaginesi per simile peccato. Appresso costoro
trovarono un castello dove vanno i perduti filosofi.
Andando
più in su per questo cerchio gli fu mostrato dove fu il limbo e gli fu detto
non esserci più il limbo poiché Gesù Cristo recuperò l’umana natura.
Passò
un fiume pieno di serpenti e dragoni e venne tra molte anime ignude che
sedevano tra molto sangue che si traevano da dosso i ramarri e le vespe.
Il
Guerrino domandò che anime erano quelle.
Gli
fu risposto:
“Questi
sono gli accidiosi e i negligenti cattivi”.
Così
lo lasciarono.
I
demoni lo portavano in aria fuori di una porta e all’uscire vide quattro torri;
ognuna aveva una porta. I demoni lo portarono in una pianura di giunchi e
cominciarono a batterlo tanto diversamente e con tanta sveltezza che egli perdette
ogni intelletto umano per modo che tramortì. Non sa quanto stette tramortito e
ben credette che l’anima si partisse dal corpo.
Quando
tornò in se era sopra la riva d’un grande fiume e i demoni gli stavano intorno
e facevano così grande urlar con terribili bocche e strida che tramortì
un’altra volta.
E
tornato in sé lo fecero tramortire la terza volta.
Quando
rinvenne per la terza volta disse:
“Gesù
Cristo Nazareno nel tuo nome fammi salvo”.
Questo
disse tre volte.
Egli
era tanto rotto e afflitto che non si poteva muovere ma pur le botte lo
ristorarono e si ricordò quando sopra la riva del Nilo dovette combattere con i cani per proteggere i
compagni.
grande
paura e detti i santi versi fu liberato e passò
di là e fu fuori dall’inferno e trovò gli spiriti
beati.
Ritornato
la terza volta e detta tre volte l’orazione per allontanare i demoni che gli
erano attorno, certo che se egli avesse avuto la spada avrebbe fatto battaglia,
ma poco gli sarebbe giovato e levatosi dritto si vide ai piedi di un gran
fiume: i demoni lo avevano tanto battuto e franto che appena poteva star
dritto. Guardò di la dal fiume, vide molti vestiti di bianco e udì cantare
............. sanctus sanctus dñs deus ............., vide un fiume e di
traverso c’era un ponte tanto stretto che non vi è così piccolo animale che
l’avrebbe potuto passare.
Egli
si fece il segno della santa croce e si raccomandò a Dio, fu preso e posto nel
mezzo del ponte ed ivi lo lasciarono.
Poi
cominciarono a gridare e a gettargli pietre e pali per modo che il Meschino fu
per cadere. Il ponte era così stretto che un piede innanzi all’altro non
c’entrava. Egli incominciò a chiamare Gesù Cristo e il ponte si cominciò ad
allargare. Dette queste parole incominciò a cantare Domine in furore tuo
arguas me e il ponte si allargava. Egli passò e quei vecchi, vestiti di
bianco, gli vennero incontro fino al ponte e cantavano Te deū laudamus .
Giunto
in terra si gettò in ginocchioni e non si poté sostenere che quasi cadette in
terra. Pianse per allegrezza.
Uno
di loro gli fece il segno della santa croce,
gli gettò addosso un po’ d’acqua del fiume e gli disse:
“Levati,
tu che sei purgato del tuo peccato”.
Egli
si sentì sano e disse:
“La
potenza di Dio che una sola parola può tutte le cose fare e disfare. Sempre sia
lodato e ringraziato”.
Sentì
la pietà che Dio ebbe di lui: ogni percussione, ogni affanno, ogni paura si
partì da lui. Rimase forte armato di fede, carità e speranza e non vide più
demoni.
Dinanzi
a lui apparve una perfetta luce splendente.
menato sopra il dilettoso monte con grande festa e
gli
fu mostrato il paradiso delizioso di Enoch ed Elia.
Fuggita
da lui ogni paura e ricordandosi delle cose passate che egli aveva sostenute,
veramente gli pareva essere stato in una visione ovvero sogno e gli parve di
aver dormito. Vide appresso una grande processione di creature che andavano
cantando divini canti e lodando Dio dicendo:
“Lodato
sia il Signore che ti ha fatto forte”.
Gli
davano la benedizione dicendo:
“Ora
vieni a vedere il paradiso”.
Andò
con loro e giunse ad una porta che riluceva d’alcune cose preziose delle quali
era molto adornata.
Le mura
del paradiso sembravano alte fino al cielo e parevano di acceso fuoco tanto
erano splendenti. Essendo vicino sembravano d’oro fino e piene di pietre
preziose. Toccò con le mani ma non si poteva conoscere di cosa fossero; a lui
parve che fossero incastonate di fine rubino.
La
porta era aperta e questo primo girone era di sfavillantissimo odore. Uno di
quei benedetti spiriti gli dette un pomo molto odorifero. Egli levò le mani al
cielo, ringraziò Iddio e mangiò un poco di quel pomo che tanto lo confortò che
egli sarebbe volentieri restato in questo luogo.
Poi
che ebbero detto molte preghiere lo lasciarono con due di loro e gli altri
sparirono. Rimasto con i due antichi, bei vecchi, questi lo confortarono e lo
guidarono per il luogo santo. Andò con loro
e giunsero dove erano i più dilettevoli e migliori frutti che mai
fossero al mondo visti per corpi umani.
Egli
domandò loro se questi santi erano nel paradiso.
Dissero
di no.
Anzi
siamo in terra santa la quale è intorno al paradiso terrestre delizioso, nel quale
nessun corpo mortale poteva entrare dopo che Adamo ne fu cacciato.
Egli
domandò:
“Non
vi sono i tre santi profeti, il santo Evangelista Giovanni, Enoch ed Elia? ”.
Risposero:
“Noi
siamo quei santi uomini, Enoch ed Elia, ci è data questa abitazione fino a che
il figliolo dell’uomo, Gesù Cristo, verrà a giudicare il mondo e santo Giovanni
è nel segreto di Dio”.
Essi
domandarono se egli aveva visto l’inferno.
Rispose
di si e quel che aveva visto.
Gli
dissero:
“Ora
ti saprai guardare dai peccati perché tu vedi quanto è dilettevole e santa
questa stanza e dilettosa, però pensa quanto è più dilettevole quella del
paradiso dove fu messo il nostro padre Adamo. Ora pensa quanto maggiormente è
più dilettevole la gloria di vita eterna dove si vede la maestà del Signore Dio
padre nostro”.
Come in Meschino domandò a Enoch ed Elia di
molte belle ragioni, a cui furono chiarite le
dubitazioni
di Lucifero e d’altre cose.
Uditi
questi profeti, domandò di certi dubbi e disse:
“Lucibello
(Lucifero) fu cacciato da quel paradiso terrestre o da quello della gloria di
sopra”.
Rispose:
“Egli
fu cacciato dai due, ma fu creato in questo e messo in quello. Il nostro padre
Adamo fu creato in quello e posto in questo”.
Egli
disse:
“Voi
dite Adamo essere fatto in cielo e noi diciamo come il cielo non è terra se non
quella del corpo di Gesù Cristo e quella della vergine Maria”.
Risposero:
“’Sì
tosto come Dio fece traboccare Lucifero nel profondo, così subito fu fatto
l’uomo nel cospetto di Dio e quando disse faremo l’uomo all’immagine e
similitudine nostra il giorno secondo lo fece di fango poi gli disse levati
su. Quello che si vestì di quel segno di terra, di acqua, di fuoco e di
aria fu l’anima, che Dio, al suo cospetto aveva creata in cielo. L’anima però
vince e il corpo è mortale. Lucifero fu fatto in questo paradiso, però montò in
superbia per la ingratitudine quando si vide senza alcun merito montato in
cielo per la biasimazione terrestre, che la creatura terrestre sempre montò in
superbia e in terra conviene morire perché
Lucifero era spirito senza corpo e gli fu dato il cerchio della terra e
tutti i malvagi della sua setta ritornano nel suo corpo partecipando attraverso
quegli ordini di falsi angeli che rimasero con lui”.
Il
Meschino stette attento a queste parole e disse loro la figura in che modo egli
l’aveva veduto nell’inferno e domandò loro cosa significavano i sei corni che
ha in testa, così grandi:
Risposero
i santi padri:
“Quei
sei corni significano i sei gravi peccati mortali che egli ha in lui:
-
il primo è chiamato
ingratitudine, che fu chiamata il più abominevole peccato di tutti quanti gli
altri peccati mortali;
-
il secondo è chiamato superbia;
-
il terzo avarizia;
-
il quarto invidia;
-
il quinto ira;
-
il sesto tradimento.
Domandò ancora:
“Perché ha tre facce, una negra, l’altra gialla e
l’altra negra e gialla? E che significano?”.
Risposero:
“Il primo periodo fu permissivo e si visse sotto
l’ipocrisia mostrando giallo per oro, si ché la faccia gialla significa la
prima età, fino al sommo Pontefice Gesù Cristo. La seconda che è negra
significa ferro perché Cristo dette l’arma brunita che fu posta per combattere
contro il demonio e le armi sono le sacre scritture. La terza faccia che è
gialla e negra significa che dietro il giudizio, poiché sarà giudicato tutto il
mondo, sarà serrato l’Inferno e dentro rimarrà gente di ogni città. Però egli
ha questa faccia di dietro e saranno per il simile maledetti e non vi saranno
quei gironi che tu vedesti di ogni peccato cioè di punire l’uno da parte o
dall’altra perché dietro alla sentenza ogni cosa sarà mescolata e pensa quanto
la pena crescerà. Però non pensar che
il freddo tolga la pena al caldo: ognuna pena di divina giustizia sarà peggiore”.
Allora domandò il Meschino:
“Quelli che hanno sette serpenti intorno alla gola,
terribili e stranissimi, che significano?”.
Disse:
“Sono sette serpenti che pazzano il mondo, cioè i
sette peccati mortali”.
Gli disse ancora:
“Che significano quelle sei ali e tutte di un
colore”.
Rispose:
“Quel medesimo colore e le sei corna che ha in
testa. Ma tanto fa più le ali che per lo menare fa il luogo pieno di freddura”.
Ancora domandò d’una grande bocca che egli aveva
all’ombelico, più zozza che le altre, vi era dentro col capo innanzi Almech
figliol di Gedeone e nella faccia negra, di sopra, era Giuda Iscariota.
Risposero:
“Quella significa la simonia dei pastori della
chiesa a cui non basta sempre la loro volontà; l’entrata ordinata dalla divina
scrittura voluta anche dal demonio per un quarto degli spirituali che diventano
ancora rapaci uccelli ai quali non rimarrà religione, ne carità, ne speranza e
avranno tanto potere al mondo che molti si faranno religiosi non per amor di
religione ma per amor di beni temporali e uno del sangue suo credette aver
fatto bene a guastar la santa fede cristiana e fu Imperatore”.
Ancora disse il Meschino aver veduto uscire da
quella bocca un serpente molto brutto, era tanto scuro che egli si volse e non
lo volle vedere, aveva sei corna in testa.
“Che significa?”.
Risposero:
“Quello è quel serpente che ingannò la prima donna,
madonna Eva, e il primo nostro padre Adamo. Tornerà ancora al mondo e piglierà
un corpo generato di adulterio in sette gradi di peccati mortali e sempre sarà
sacrato il maschio e la femmina che genereranno e l’ultima generazione sarà del
grande sacerdote della Chiesa, cioè il Papa. Chi sarà nato dalla sua
generazione, per sei gradi in peccato mortale perirà, tutto il mondo per l’avarizia e per la simonia del mondo.
Le sette corna significano che egli troverà in se le sette scienze, in modo che
nessuno potrà, per le dette scienze, contrastarlo. Si farà adorare da tutta la
gente perché riempirà tutte le gole della simonia e i primi che l’adoreranno
saranno sacerdoti affamati e desiderosi di riempire le loro cattive volontà, le
quali sono insaziabili. Come Giuda era impiantato in quella bocca negra di
sopra e Almalech in quella di sotto così i sacerdoti iniqui e malvagi e i loro
seguaci si pianteranno nei loro cattivi e pessimi peccati”.
Egli domandò se un battagliero armato si potesse
salvare.
Risposero:
“Tutti i grandi della fede usano quel che Dio mette
loro a disposizione per difendere la fede di Gesù Cristo.
Come
al Meschino fu mostrata la gloria del
Paradiso
delizioso e i nove cori d’ Angeli.
Mentre essi andavano così
ragionando vide un grande
splendore uscire da una meravigliosa città murata, sembrava essere di fuoco
intorno, e quanto più si accostavano tanto più si accendeva la loro mente in
amore e in carità. Dentro quella città c’era un divino splendore, maggiore
dello splendore del Sole e con più soavità e si sentivano angeliche voci con
divini suoni.
Il
franco Meschino già inebriato dal rimbombo delle angeliche voci degli angeli
disse verso Enoch ed Elia:
“Voi
siete giusti ed io sono peccatore. Vi prego di insegnarmi come io possa
rimanere in questo luogo”.
Risposero
che in nessun modo si può avere la gloria di Dio senza fatica, ne senza
penitenza, ne senza la divina grazia:
“Ti
conviene tornare indietro, ma prima ti mostreremo dalla porta questo paradiso,
ove tu non puoi entrare, affinché tu manifesti agli increduli il purgatorio di
S. Patrizio, le pene dell’inferno e gli altri misteri che tu hai veduto e
vedrai”.
Allora
fu aperta la porta del paradiso, grandissima, e gli entrò nel petto un raggio
che lo fece cadere. Levatosi dritto e accostatosi alla porta, sopra la quale
c’era un angelo con una spada di fuoco in mano, i due santi uomini lo posero
sopra l’entrata della porta. Guardò dentro e vide nel mezzo un uomo che sovrastava
tutti i cori degli angeli e tutti i cieli, aveva abbracciato dinanzi un altro
uomo il quale aveva le braccia aperte e tanto grandi che abbracciava il cielo e
la terra, aveva forate le mani e i piedi e aveva una gran piaga nel costato. La
sua faccia gettava uno splendidissimo lume il quale lume era la terza cosa
oltre le due dette sicché per questo lume sembravano quello che erano cioè tre
in una sostanza: Padre, Figliolo e lo Spirito santo in trinità. Queste tre
persone gli mostrarono una faccia splendente e una divinità. Sotto i piedi
aveva due grandissimi libri, cioè sotto ogni piede uno; uno era serrato e
l’altro aperto, quello aperto sotto il piede destro e quello serrato sotto il
piede sinistro. La divinità era sostenuta da tre persone che sedevano sopra tre
grandi sedie e quello che sedeva nel mezzo teneva su ogni libro una mano. Ogni
libro aveva una parola scritta in lettere d’oro tra i piedi: quella del mezzo
diceva fede. L’altra persona era dal lato dritto, teneva con tutte e due le
mani il libro e la sua scritta diceva speranza. La terza persona era al suo
lato mancino e teneva con ambedue le mani il libro che era sotto il piede
stanco e la sua scrittura diceva carità.
Di
sotto a queste tre sedie, un grado più in basso, erano sedute quattro persone.
L’una di quelle del mezzo aveva nella mano destra una spada nuda e nell’altra
mano le bilance. L’altra dei due di mezzo aveva un coltello nudo nella mano
dritta e con la manca aveva preso nel mezzo del taglio e lo stringeva forte. La
prima aveva scritto tra i piedi giustizia e l’altra temperanza. La terza a
destra teneva disteso il braccio e teneva in mano tutto il mondo e teneva
l’altra mano al fianco e ai suoi piedi erano lettere d’oro che dicevano
fortitudine. La quarta persona che era a sinistra teneva la mano tutta distesa
verso il cielo e un dito teneva disteso
e nella mano manca teneva un libro aperto e ai suoi piedi teneva scritto
prudenza.
Ancora
vide angeli sospesi in tre luoghi, l’uno era d’intorno al lato superiore e
questa parte era in tre cori di angeli, ai piedi intorno a queste cose, erano
altri tre cori di angeli, in mezzo
erano altri tre cori di angeli e tutti cantavano Sanctus Sanctus Sanctus
dominus deus sabaoh pleni sunt e celi e terra gloria tua osanna in eccelsis ed era tanto dolce questa melodia che lingua
umana non la potrebbe dire.
Come
egli alzò gli occhi da questa visione divina per guardar le altre cose fu
serrata la porta ed egli rimase fuori, tutto sconsolato con Enoch ed Elia e
quei due lo confortarono.
Come
il Meschino domandò ad Enoch ed Elia di quelle cose che
egli aveva veduto della divinitàde e di certi dubbi che aveva.
Essi
dichiararono ogni cosa per ordine.
Serrata la porta del
Paradiso egli si volse a quei due primi santi che lo guidavano e disse loro:
“Lodato,
benedetto, glorificato e ringraziato sempre sia Iddio”.
Poi
disse:
“Oh
miei primi vi prego affinché voi mi diciate che libri sono quelli che ho
veduti”.
Risposero
essere libri del giudizio, l’uno è scritto dall’inizio del mondo fino alla
nascita di Cristo. E quello che è aperto sempre si scrive. E si cominciò a
scrivere dal momento che la vergine Maria disse: “Ecce ancilla domini”,
e sempre si scriverà fino a quando Dio dirà: “Venite al giudizio” per mezzo dei
suoi angeli. E fatto il giudizio così serrerà l’inferno e i libri saranno
serrati in eterno.
Egli
disse:
“Ben
vorrei che a Dio piacesse che io mi ritrovassi con voi fino al dì del giudizio.
Ma poiché non piace a Dio non piace a me”.
Muovendosi
voleva domandare delle altre cose che egli aveva vedute ma loro giunsero ad una
gran pianura dove, in mezzo, era una chiesa e come giunsero all’uscio di detta
chiesa quei due santi dissero:
“Stà
con la pace di Dio, tu sei nella chiesa dove fosti ammaestrato”.
E si
fecero il segno della croce e andarono via. Egli rimase solo, si gettò in
ginocchioni e quando li vide scomparire pianse e lacrimò per pietà di se. Si
raccomandò a Dio pregandolo che l’aiutasse. Vide venire fuori dalla chiesa due
uomini vestiti di bianco che dissero: “Dio, che ti ha fatto forte e costante,
ti ha rimandato sano e salvo. Non temere perché noi ti metteremo in luogo
sicuro. Ben sappiamo che Enoc & Elia ti hanno accompagnato fino a qui e hai
molto da lodar Dio perché mai non ci venne persona che vedesse Enoch e Elia se
non tu solo. Ora vieni nella chiesa e piglia la benedizione, noi ti faremo poi
compagnia fino alla porta dove tu entrasti”.
Egli
andò con loro nella santa chiesa.
nella chiesa dove era capitato prima, dove ebbe
notizia di suo padre e della sua madre e come
gli fu detto che lui era di sangue reale.
Giunti
nella chiesa, i santi e il Meschino fecero un certo ufficio, gli dettero la
loro benedizione e gli dissero:
“Ora
andiamo al mondo dei vivi e si ritorna all’Abbate”.
Allora
si ricordò di due cose, l’una degli angeli che vide in Paradiso e l’altra di
suo padre di cui non aveva saputo niente e domandò delle tre partite di angeli
che egli vide in Paradiso. Ad ognuna delle domande particolarmente gli
risposero:
“La
prima gerarchia dove è l’altra sedia di Dio, è di tre ordini di angeli, cioè
Serafini, Troni e Cherubini e si chiama
sopraceleste gerarchia. Altri tre ordini, Dominazioni, Virtù e Potestà sono nella
celeste gerarchia. Gli altri tre, cioè Principati, Angeli, Arcangeli, si
chiamano sotto-celeste gerarchia, però sono più bassi di tutti gli altri e sono
quelli che governano il mondo”.
Disse
il franco Meschino:
“O
devotissimi di Dio io vi prego che voi mi parlate del padre mio che, per fatiche e affanni, non mi sono ricordato
a domandarvi”.
Rispose
uno:
“Tuo
padre è vivo e tua madre è con lui; per certe ragioni non ti possiamo dire, ma
ti mostreremo una cosa fatta a loro similitudine e tu per quella li troverai”.
Allora
lo condussero in un cortile a lato alla chiesa e da una porta vennero due
persone: un uomo e una donna.
L’uomo
aveva grande capigliatura bianca e avviluppata, la barba folta e grande e tutti
i panni stracciati.
La
femmina, tutta pelosa, scalzi i piedi, le unghie lunghe, tutte le gambe
rognose: da più parti mostravano la carne e così era la donna come l’uomo.
Dissero
a lui quei santi:
“Guarda
bene costoro perché tu troverai tuo padre e tua madre in questa medesima
forma”.
Egli
li guardò dinanzi e dietro per conoscerli e domandò costoro come avevano nome;
non risposero.
Egli
li aveva scolpiti nella mente e per vero temette che fossero fantasmi o qualche
inganno di demoni.
Quei
servi di Dio gli dissero:
“Non
ti affannare perché tu sei della stirpe reale e in Italia si muoverà la causa
per la quale tu troverai il tuo lignaggio. Non piace a Dio che più di questo ti
sia detto perché non ti accresca alcuno fastidio, ovvero ne seguirebbe alcuno
scandalo”.
Egli
stette contento e desideroso di trovare il padre suo. Mill’anni gli parve a
uscire di questo luogo. Partì da quella chiesa e i santi in sua compagnia,
vennero alla tomba dove egli era entrato su quel prato. Entrati in quella tomba
gli fecero compagnia e giunti alla scala, insieme, tutta la salirono e alla porta gli dettero la loro benedizione,
poi tornarono indietro di picco alla porta e se ne andarono da soli , rendendo
grazia a Dio.
Come il Meschino uscito dal Purgatorio fu
onorato
dall’Abbate, andò da Messer Dinoino
e dal Re d’Inghilterra e raccontò di molti
bei paesi
che vide.
Non dovevano i due santi
padri esser giunti ai piedi della scala che la porta gli fu aperta e sentì la
voce dell’Abate e come ebbero aperto egli uscì fuori e i monaci erano tutti
pronti per dire l’ufficio e cantavano ad alta voce il sesto salmo penitenziale,
cioè de profundis e resero grazia a Dio che l’aveva fatto salvo e molte
orazioni dicevano sopra a lui e poi lo misero nella casa dell’abate e gli
dettero da mangiare. Dopo che egli fu confortato gli domandarono di quello che
aveva veduto, ogni cosa fu messa per iscritto, domandò poi che gli fossero date
le sue armi e il suo cavallo. Armato, tolse commiato da loro e tornò in Ibernia
dall’Arcivescovo che gli domandò quello che aveva veduto e trovato nel
purgatorio. Al Meschino parve che gli credesse; prese licenza da lui e tornò
nel porto; trovò messer Dinoino che l’aspettava sconsolato e non era mai
partito, ma lo aveva aspettato tre giorni e lo fece ragionare di essere stato
nel purgatorio per trenta ore dall’entrata alla porta fino all’uscita e tanto
si sta dentro quanto è dalla morte alla resurrezione di Cristo che furono
trenta ore. Quando messer Dinoino lo
vide, corse ad abbracciarlo e subito entrarono in mare. Navigarono verso
l’Inghilterra, giunsero all’isola di Mania, perché nel mare era una fortuna.
Stettero lì tre giorni, fecero vela e giunsero al porto di Norgales e tutta la
gente della città corse a vederli e con grandissima festa e allegrezza,
smontati, andarono al palazzo di messer Dinoino. La sua donna, molto allegra
del ritorno, gli fece grande onore. Stette tre giorni a Norgales con messer
Dinoino che gli voleva dare per moglie una sorella e dargli la metà di ciò che
egli aveva. Poiché intese l’animo suo non lo gravò. Presa licenza dalla donna
e, lacrimando, in ginocchioni, dinanzi ai suoi piedi, disse:
“Pregate Dio per me che
mi dia grazia ch’io possa ritrovare il padre mio”.
Messer Dinoino lo
accompagnò a Londra e visitarono il Re, il quale gli fece grande onore e
stettero in Inghilterra tre mesi e vide tutta l’isola dandosi piacere.
Vide Londra, Antona,
Egeo, Sael, Lionella, Alone e Afron. Le bolgie, Bernia, Scotia, Giuregales,
Egales, Balaepta, Emican, Fonda e Ponta, Molta, Volca, Prararia. Piona, Artanisi
e Brisco. Tutte queste città sono nell’isola di Inghilterra. Tornati a Londra
prese licenza dal Re e dal magnifico Dinoino. Il Re gli fece donare molti
denari; ne prese tanti quanti lo portassero a Roma. Aveva fatto scrivere tutto
il suo viaggio, dal giorno che fu fatto schiavo a Costantinopoli fino alla
partenza dall’Inghilterra.
Gli fu preparata una
nave sulla quale montò e lasciò messer Dinoino lacrimando e partito
dall’Inghilterra arrivò ai porti di Francia e prima alla Mudia e Sunalon,
Tacoriboco e al monte Santo Michael a Lision. Partito da Picardia venne in
Normandia e vide Mustavalier Dorsete, Cortigiaco, poi entrò in Fiandra dove
vide Gatto, Brugis, Impris, Anueris, Brucelia, Malinis e vide i porti di
Alamagna sul mare Oceano. Gli fu detto come sono questi porti, cioè del fiume
Reno nel primo golfo Ulione e Rispia Frizia e Dacia e Manifa fino al fiume
detto Albis.
Partito
Guerrino da Doreti prese il suo cammino per la Fiandra e passato il fiume di
Lixia vide la grande potenza del Contado di Fiandra e nelle parti di Francia
passò per queste città: Arrega, Refore e Moscogne, Noron e Falisia, Compagior,
Arces, Rouano, Sirico e la città di Parigi e vide un reame Ariseo e Orlinse,
Leona e Brisso, Tors in campagna e Berlanda, Carfon, Forcibero, Leon sul
Rodano, Stionna, Lefonia, Lori, Viena e Ernia. Passò tutte le montagne
dell’Appennino e giunse in Lombardia nella quale gli piacque di cercare e
cominciò in Piemonte e vide Chiarasco, Albastia, Alessandria, Tortona dove posa
il Po e vide la città di Torino sotto Vercelli, Casale, Sanuaso, Novara, la città
di Milano, Pavia, Monza, Crema, Bergamo, Brescia, Cremona, Mantova, Verona,
Vicenza, Ferrara, Bologna, Modena, Pisa, Firenze, Arezzo, Parma, Piacenza, e
passò le Alpi, Pistoia, Siena, Polsena, Sutri e la città di Roma. Il secondo
giorno che egli entrò in Roma si presentò al Papa Benedetto terzo e poiché lo
confessò da lui volle sapere tutto della sua andata al purgatorio. Ogni cosa,
per ordine, gli disse e alla fine spiegò che la ragione dell’arrivo in Italia
era quella di trovare suo padre e la sua generazione. Il Papa gli dette la sua
benedizione poi disse:
“O
franco Cavaliere in Puglia, nel principato di Taranto, si fanno gran fatti
d’armi per il Re Guizzardo, Re di Puglia, che vuol far passaggio sopra gli
infedeli verso Albania per vendicar un suo fratello che aveva nome Milon,
principe di Taranto, il quale fece passaggio in quelle medesime parti già sono passati 30 anni, prese Durazzo, e
fu un anno Signore, poi per tradimento, perdette la signoria o morì: quello che
non si poté mai sapere. Il fratello, che è Re di Puglia, è disposto a farne
vendetta pertanto avendo fatto tante battaglie per gli infedeli è disposto a
combattere contro i nemici della fede cristiana. Questo Re Guizzardo ha buona
gente volonterosa, non gli manca altro che un capitano. Io ti farò una
lettera e sarò testimone della tua
valenza e ti darò cento uomini a cavallo, i quali saranno ai tuoi ordini; con
la mia lettera davanti a Re Guizzardo egli ti farà capitano di tutta la sua
gente. Ora va nel nome di Dio”.
Quando
il Meschino, udite queste parole, tutto si rallegrò, s’inginocchiò davanti i
suoi piedi e accettò quanto detto dal santo Papa. Si fece fare la lettera e il
terzo giorno che egli si presentò gli dette cento uomini a cavallo e li pagò
per lui e a tutti fece giurare fedeltà nelle mani del Meschino tanto che lo
chiamarono Signore. Partì, prese il cammino verso la Puglia e tanto cavalcò che
giunse a Napoli e presentato al Re Guizzardo con la compagnia presentò la
lettera la quale fece più fede di lui di quanto ne avesse bisogno. L’antico Re,
che aveva allora settanta anni e più, fu molto allegro. La lettera lo chiamava
cavaliere di Dio, dicendo come egli sicuramente lo dovesse fare capitano della
sua gente contro i Saraceni ed essendo a parlamento con Re Guizzardo, il quale era
suo barba, cioè fratello carnale di suo padre,
gli domandò di dove egli era.
Il
Meschino rispose:
“Solo
Dio sa di dove sono e non già io e gli disse come era stato allevato in
Costantinopoli e fu chiamato per nome il Meschino e come aveva cercato in tutto
il mondo.
Allora
egli lo guardò nel viso e disse:
“Saresti
quel Meschino che combatté con i Turchi contro il Re Astiladoro a
Costantinopoli”?
Egli rispose in greco e
disse:
“ Ti
ho molto a caro per la buona fama che
hai”.
Il
giorno dopo chiamati tutti i suoi caporali, comandò loro, sotto pena della loro disgrazia di ubbidire a Guerrino come
fosse la sua persona”.
Dicendo:
“Io vi do il più franco
e valoroso che sia in tutto quanto il mondo, senza cagione non vi dico che
facciate il suo comandamento perché Dio ve l’ha mandato affinché egli vi guidi
contro i Saraceni”.
Detto
questo lo fece Capitano di tutta la gente da pié e da cavallo e fece
apparecchiare quello che era necessario: navi, vettovaglie, armi e denari. In
capo a due mesi furono apparecchiati nel porto di Brindisi 200 navi cariche di cavalli, di cavalieri,
pedoni e armi, ingegni e vettovaglie.
E fu
questa gente in tutto 8 mila cavalieri e 12 mila pedoni.
Quando
partì re Guizzardo, pianse e disse:
“Va
con buona ventura; che Dio ti dia vittoria”.
Egli
entrò in nave, fece vela e andarono verso Durazzo.
Come
il Meschino partì da Napoli essendo fatto capitano
con armata e navi passò in Albania e pose assedio
a una città chiamata Dulcegno.
La
fama era giunta per tutta Albania di come in Italia gran gente si apprestava a
passare in Albania. Per questo Napar Duca di Durazzo aveva mandato un suo
fratello il quale aveva nome Madar. Questo Madar aveva tre figlioli: l’uno
aveva nome Arsineo, il secondo Danache, il terzo Artilanor. E Napar Duca di
Durazzo aveva due figlioli: l’uno aveva nome Silonio e l’altro Palamides. Tutti
questi cinque figlioli, poiché il padre del Meschino fu messo in prigione con
diverse donne perché i Saracini possono disporre di molte donne, tutti dovevano
portare armi e tutti erano venuti a Durazzo con gran gente.
E
navigando l’armata dei cristiani ebbe vento a prua di modo che furono spinti
nel mare Adriatico più che non volevano.
E
arrivati nel golfo deliberarono di non tornare e toccare terra.
E li
portò a una grande terra, che era sotto la signoria di Madar chiamata Dulcegno.
Come furono a terra fu detto al Capitano come la terra di Durazzo era li
appresso a due giornate. Quando il Meschino vide questa terra pensò che sarebbe
stato molto utile averla e comandò che il campo si ponesse intorno a Dulcegno e
così cominciarono ad accamparsi.
Quelli
della città vedendosi accampare i cristiani intorno alle loro città ebbero
molta paura; mandarono a Durazzo due messi i quali furono presi e portati dinanzi
al Meschino.
Egli
domandò come la città era fornita.
Gli
fu risposto che tutta la gente era a
Durazzo, perché il campo si aspettava a Durazzo: “ e per questo motivo noi
eravamo mandati a Durazzo”.
Così
il Meschino, sentito questo, subito fece apparecchiare molti strumenti per
combattere che erano nelle navi e molte scale. Il giorno seguente comandò che
tutte le navi si avvicinassero alla terra armate per combattere e così
fecero; pedoni e cavalieri armati con
ingegno si approssimarono alla città. Era verso terra, una gran parte del muro
molto debole, e quelli della terra si fidavano e non temevano quel luogo per
la grande fortezza del fosso e la città
era da tre parti combattuta salvo che da quella parte del fosso. Il Meschino
aveva mandato tremila cavalieri in tre parti del paese affinché se i Saraceni
fossero apparsi li avrebbero sentiti.
Come Guerrino dopo una piccola
battaglia presso
le mura della città di Dulcegno, vide una
parte debole delle mura e come
fece fare un ponte.
La battaglia era grande
per mare e per terra, quelli dentro facevano gran difese, ma i balestrieri
cristiani ne ferivano molti e durò questa battaglia da mezzo giorno fino al
tramontar del Sole e molte scale furono appoggiate alle mura, e molte ne furono
rotte da pietre e legni gettati dalle mura, nondimeno la maggior parte degli
uomini a terra furono feriti ed essendo molto affaticati si empirono di gran
paura. Il Meschino, avendo posto, tutto il dì, mente alla terra, vide quel fosso
pieno d’acqua e le mura più deboli che altrove. Sopraggiunta la sera fece
suonare a raccolta e ritirare tutta la sua gente, ognuno tornò al suo alloggio.
Quando le navi furono tirate indietro il Meschino andò fino alle navi e chiamò
un valente cavaliere, il quale era da Capua, chiamato Manfredo, e lo fece
capitano dei duemila pedoni, ordinò che gli ubbidissero e segretamente ordinò
che a mezzanotte facesse accostare le navi a terra per conquistare parte del
muro e se non lo avessero potuto pigliare che stessero fermi alle navi dicendo
a loro di farli attendere altrove perché egli aveva speranza di avere quella
terra quella notte.
Appresso
questo ordine trenta cassettoni (caratelli) vuoti furono portati nel campo e li
fece fissare a due a due insieme: furono quindici coppie attaccate con legni di
modo che a due a due si potevano portare e comandò di avere certi legni lunghi
che fossero portati confitti l’uno al pari all’altro che si aggiungessero alle
teste dei cassettoni. Inoltre molte scale furono apparecchiate e quando queste
cose si ordinarono il campo faceva molto rumore. La sera tutta l’armata si
confortò e i feriti furono ben curati.
Come il Guerrino con grande
ingegno e ardire per la
città di Dulcegno la mise a sacco e fece battezzare
chi voleva campare la vita.
Giunta
la mezzanotte il Meschino era già andato due volte fino al fosso della terra
intorno alle mura, era tornato ai padiglioni e fece armar tutta la sua gente da
cavallo e da piedi e fece portare tutti quei caratelli così confitti fino al
fosso e sempre andavano quietamente, con poco strepito, ed essendo la mezza
notte mandò a dire a Manfredo che si muovesse. Egli così fece ma non poté andar così quieto che le navi
non fossero sentite con elevato rumore
nella città dalla parte del mare. Accorsero francamente e grande battaglia
incominciarono e in questo mezzo si fecero avanti quelli della nostra armata
verso Durazzo con le scale e qui vennero perfino delle femmine. Mentre le due
parti combattevano il capitano fece mettere i caratelli nel fosso e furono
prestamente legati e fatti tre ponti da passare; la notte era oscura, quelli
della terra da quella parte non avevano timore nessuno per amore del fosso.
Fatti i ponti il primo che passò fu il Meschino pianamente con una scala al
braccio, la appoggiò sul muro e salì. Giunto tra due merli mise la punta della
spada dentro e non sentendovi persona salì sopra al muro.
Ora
chi era colui che sentendo di mano in mano, come il capitano era sopra le mura,
che non si sforzasse di andar su; infatti montarono in su le mura più di mille
prima che quelli da terra se ne avvedessero. Senza far rumore il Guerrino mandò
a dire a quelli del campo che assalissero la terra perché egli era dentro.
Subito si mossero. Quando quelli delle navi sentirono la notizia ognuno con la
sua gente salì. E tutti quelli della terra pieni di paura fuggirono di qua e di
la per le loro caverne sotto terra, per le loro case, piangendo della loro
sfortuna. Il Meschino conquistò una porta della terra da cui entrò la gente
d’arme e corse tutta la terra gridando viva Monzoia il Re Guizzardo. E prese la
terra di Dulcegno e furono uccisi quelli che furono trovati per le strade con
l’armi e fu messo a sacco e fece battezzare
tutti quelli che trovarono per le case, piccoli e grandi, femmine e maschi, e
presa questa terra entrò dentro
l’armata facendo allegrezza della vittoria e del guadagno.
Dulcegno e Madar mandò per tutta la Turchia e
come li venne gran gente.
Quelli
del paese di Dulcegno intesero che la terra era perduta, molti andarono a
Durazzo, e fecero sapere a Madar come i cristiani avevano preso Dulcegno, di
tale novella ebbero tristezza e dissero: “Converrà che noi li cacciamo e prima
ci dobbiamo difendere. Per questo mandarono in Grecia e a tutti i Turchi che
avevano signorie di qua dallo stretto di Ellesponto, cioè a Pale, Macedonia, Saloniche, d’Antipari, il
Darabalo nelle parti di Poe, e di Macedonia e di Tessaglia e Tracia e infine a
Polonia, in Bossina, tutte queste parti tenevano i Turchi e a Polonia e in
Tarsia era signore il re Astiladoro e da Bostoa fino al Danubio dove era una
città chiamata Vesqua e da indi in la passato il Danubio e la provincia di
Dacia verso tramontana. In questa provincia sono dieci città, la principale ha
nome Dacia ed sopra un fiume nominato Tiras verso Misia e verso il mar
maggiore. La seconda città è posta sopra il fiume detto Narans, questo fiume
Narans entra nel Danubio presso una città che si chiama Grassela. La città
sopradetta si chiama Sardia, poi vi è Pirana e Darmisia e Zentro e Salmes e
Urpina presso monte Carpentas, il qual monte è sotto Tramontana, ai confini
della Polonia e della Dacia. E da queste parti mandarono i due fratelli Turchi
in soccorso. In questo mezzo il Meschino si riposava con la sua gente e la
notizia arrivò a Brandisio di modo che lo seppe presto il re Guizzardo. E
subito ordinò molte navi, e gli mandò quattromila cavalieri e tremila pedoni e
mandò un suo figliolo, che aveva nome Girardo fu Pugliese, perché era il primo
nato in Pugliae ed aveva 27 anni. Il padre gli comandò che non si partisse mai
dalla volontà del capitano e venne a Dulcegno dove trovò che il Meschino con tutta l’armata si apparecchiava per andar
verso Durazzo. Quando il Meschino vide Girardo ne ebbe grande allegrezza per
lui, e per la bella gente che lo accompagnava e volle che si fermasse tre dì.
Poi
lo chiamò e disse:
“Noi
andiamo a porre campo a Durazzo dove fu la prima volontà di tuo padre e voglio
ti piaccia rimanere”.
Rispose il Pugliese che
non era venuto per guardar terre ma per combattere con i Turchi e ragionando si
levò nella città gran rumore e tutta la gente correva alle armi e un cavaliere
giunse da costoro e disse che in verità a Durazzo veniva gran gente. Allora il
Meschino e Girardo uscirono dal palazzo e mandarono un bando affinché tutti
fossero armati e quella sera uscirono dalla terra dodicimila a cavallo e
diecimila pedoni, lasciarono i rimanenti a guardia della città e andarono verso
Durazzo. La mattina ebbero notizia che i nemici erano a due leghe. Per questo il franco Meschino ordinò le sue
schiere e si ingegnò di sapere quanti erano i nemici e seppe dagli spioni che
quelli a cavallo erano trentamila e venti mila a piedi. Quando seppe questo
fece tre schiere.
Girardo
disse: “ La prima tienila per te. Non è buono dividere le genti, perché al
capitano potrebbe portar pericolo”.
Meschino
disse: “Questo lo faccio perché guidiate le altre schiere voi per salvarvi”.
Girardo disse che la prima era la sua e gli
diede cinque mila cristiani da piè e da cavallo e poi ordinò a se la seconda
con cinque mila a cavallo e con quattro mila a piedi che seguisse la sua
persona e della terza ne fece capitano Manfredo con tremila cavalieri e
cinquemila pedoni, e a molti franchi uomini che erano nel campo dette le
bandiere. Comandò che non entrassero nella battaglia fino a che non venisse
egli di persona, per loro furono in quella schiera 5 mila cavalieri e
cinquemila pedoni valenti per combatter contro i Turchi.
I
Saraceni fecero quattro schiere. La
prima la condusse Arsineo figliolo di Madar e Manache che era suo fratello. La
seconda la condusse Madar e Artilanoro suo figliolo. E ogn’una di queste due
schiere erano di seimila cavalieri e
quattromila pedoni. La terza la condusse Silonio e Palamides figliolo di Napar
da Durazzo. Fu questa schiera di ottomila cavalieri e cinquemila pedoni. La
quarta ed ultima la condusse Napar e questa fu di diecimila cavalieri e
settemila pedoni. Ad ognuno venne dato ordine di trovare i loro nemici; a metà
via tra Durazzo e Dulcegno si scontrarono insieme gridando: “Arme, arme”.
E per
questo il Meschino partì dalla sua schiera e venne a quella innanzi e
ammaestrava i cavalieri e la schiera di Arsineo i quali più con furia che con
ordine correvano alla battaglia.
Quando
il Meschino vide venire Girardo gli disse:
“Se
voi mi ubbidirete noi saremo vincitori. Fate attenzione a tenere la vostra
gente stretta insieme, ordinata. Io voglio essere il primo”.
I
nemici erano così vicini che le saette cominciarono a giungere.
Il
Meschino disse:
“Orsù,
brigata, al nome di Dio che ci dia vittoria contro questi cani Saraceni”.
Il
Meschino si mise presto con una grossa lancia in mano. Girardo non aveva mai
più veduto Saraceni e quelli facevano sì gran rumore che egli aveva paura di
quelle grida e andò al lato al Meschino, il quale disse:
“Oh
canaglia che non siete altro che voce, ma le nostre spade faranno i fatti”.
Detto
questo emise un grido per metter cuore alle sue brigate. E in questo gridò
Monzoia, Gesù Cristo viva, e tolse la sua lancia in testa con tanto ardire che
tutta la sua gente prese cuore, e tutti fecero come lui.
entrò in campo con la seconda.
Arrestata la sua lancia il
Meschino si scontrò con Arsineo e si diedero due sì gran colpi che Arsineo
ruppe la sua lancia e non poté piegare il Meschino ma fu sì grande la percossa
del Meschino che ruppe la sua lancia e gettò Arsineo da cavallo; nella
battaglia si mise con la spada in mano facendo cose meravigliose. Girardo si
scontrò con Danache, ambedue si abbatterono in terra da cavallo e presto si
levarono in piedi con le spade in mano, si assalivano l’un l’altro e la gente
cristiana entrò nella battaglia facendo grande strage di infedeli.
Aprirono a metà questa schiera
e facevano cerchio intorno al loro signore. I Saraceni sentendosi danneggiati
si gettarono da queste parti. Ora, qui, incomincia la terribile battaglia: i
cavalieri cadevano per terra da ogni parte e in quel mezzo fu rilevato Arsineo
che fu portato, per morto, da suo padre Madar , che ebbe gran dolore sentendo
dire che erano a piedi. Girardo e Danache furono divisi da tanta gente e
Danache montò a cavallo.
E gridando la sua gente
impediva tanto Girardo che era a piedi e non poteva montare e la battaglia era
sì grande che il Meschino era corso fino ai pedoni, aveva visto la loro
ordinata schiera e rivolto tornava indietro a prender per forza la schiera per
soccorrere quella battaglia che era nel campo per salvare la vita a Girardo che
era in gran pericolo.
Quando il Meschino vide tanta battaglia anche da quella parte un
evento così furioso atterrando cavalli e partendo elmi; aih quanti capelli di cuoio e di ferro
tagliava, subito subito fu la sua spada conosciuta e giunto nel mezzo della
battaglia aveva gettato lo scudo dietro alle spalle e teneva la sua spada a due
mani e vide Danache che si sforzava di metter Girardo a morte. Il Meschino
assalì furibondo il Saracino, si volse a lui percuotendo delle spade, lo urtò.
Il Meschino gli tagliò l’elmo e gli mise la spada fino alla gola e l’uccise.
Danache cadde in terra. Il rumore, grande, si levò per allegrezza e il cavallo
del cavaliere morto fu dato a Girardo. Quando il Meschino lo vide montare a
cavallo, che non l’aveva ancora conosciuto, corse da lui e disse:
“Oimé signor adunque questa
battaglia si faceva per te”.
Gridò ai cavalieri dicendo:
“ Oh gente senza ordine, perché
non gridavate soccorso a Girardo”.
Allora Girardo disse:
“Oh cavaliere di Cristo, per
Dio e per te io sono campato, ma farò bene la mia vendetta”.
Girò lo scudo dietro e si mise
nella nemica gente e correndo ne andò fino alle bandiere di questa schiera,
disperatamente combatteva e gettò la loro bandiera a terra.
Il Meschino giunse tra i pedoni
con tremila cavalieri e pedoni e ruppe tutti i loro pedoni. Le bandiere di
questa schiera andavano per terra e peggio sarebbe stato se non fosse andato
Madar che li soccorse.
Combattendo, il Meschino e
Girardo Pugliese, e avendo rotto la prima schiera, il Meschino, vide apparire
la seconda. Egli subito suonò il corno e ridusse i suoi alle bandiere. Quando
Girardo vide tanto ordine in questo Cavaliere di Dio, se Dio non l’avesse
mandato la nostra impresa sarebbe stata vana, già si levava il rumore delle
schiere che giungevano alla battaglia. Il Meschino prese un’altra lancia e si
volse verso i nemici e così Girardo, ognuno lodava il capitano per il più
franco uomo del mondo, i cristiani a piedi furono messi a lato di quelli a
cavallo ed entrarono nella battaglia.
Or qui si videro traboccare
cavalli e cavalieri, il Meschino vincitore della battaglia corse alla sua
schiera e comandò che ognuno lo seguisse e quando giunse alla battaglia Girardo
aveva dato volta ed era in fuga, fuggendo scontrò la seconda e vide il capitano
che la conduceva.
Allora si meravigliò e disse ai
cavalieri che erano con lui che un capitano non deve avere mai troppa
sollecitudine.
E nessuno si faccia capitano se
non è prudente.
Il Meschino disse:
“Oh Signore andate alla vostra
bandiera e fatela mettere in punto.
Girardo disse:
“Questo non lo voglio fare,
anzi voglio ritornare nella battaglia”.
E così fece e quando giunse
alla battaglia tutti i cristiani fuggivano. Allora entrarono nella terribile
battaglia e fecero così grande il loro assalto che misero in fuga tutti i
Saraceni e la terza schiera salì, cioè Silonio e Palamides i quali entrarono
nella battaglia e fecero gran danno ai cristiani ma Girardo diede a Palamides
una lancia nel fianco che lo passò dall’altra parte e lo abbatté morto. Il
Meschino si scontrò con Astiladoro e gli levò il capo dalle spalle. Allora
percosse Napar nella battaglia e furono messi in fuga i cristiani e morirono
più di tremila cristiani tra quelli a cavallo e a piedi ma il Meschino corse
all’ultima schiera con la quale entrò nella battaglia. Ora sarei lungo nel dire
la turbata battaglia quanto fu dubbiosa. Silonio si scontrò con messer Manfredo
e lo abbatté morto. Di questo fatto si ebbe grande dolore, nondimeno la notte
partì per la battaglia, i cristiani affannati credettero di tornare indietro ma
il Meschino si volse a Girardo e disse:
“Guardate che il nostro campo
non torni indietro, ma dove sono le bandiere lì vi fermerete”. Girardo corse
alle bandiere e le fece portare
innanzi. Il Meschino rimase in battaglia fino alla sera ed essendo
alloggiati presso un piccolo lago, essendo i Saraceni rimasti indietro circa
una lega, c’era grande paura tra loro per la morte di tre baroni, cioè Danache,
Astilador e Palamides, e per questo erano nel pensiero di aspettar la battaglia
o no.
signore del campo e i Saraceni tornarono a Durazzo.
Essendo d’accordo di aspettare, durante la notte l’una e
l’altra parte rimasero indietro. I Saraceni deliberarono levar campo e tornare
a Durazzo e così fecero. A Durazzo andarono verso l’ora di mezzanotte, la
maggior parte della gente d’arme entrò nella città e l’avanzata mandò via la
notte. Il Meschino non volle seguirli per timore che i Saraceni l’ingannassero
e perciò non dovette seguire nessuno capitano nemico o guardia del nemico. Come
fu chiaro il giorno levò il campo e andò verso Durazzo e giunto a Durazzo pose
in due lati il campo intorno alla città. Essendo quel giorno passato senza
battaglia fuggirono dalla città, alcuni che per sospetto furono dentro percossi
e fu manifesto al Guerrino come i nemici si preparavano ad assalire il campo
dei cristiani e ancora più gli fu detto che entrando nella città avrebbero
avuto grande aiuto dalla terra. Per questo Guerrino fece segretamente stare il
campo in guardia per tutta la notte e due dì, poi il terzo dì il campo fu
assalito in questa forma che Napar diede dieci mila Saraceni al franco Arsineo
ed al fratello Silonio, comandò che la mattina sul fare del giorno dovessero
assalire il campo da due parti e comandò a suo fratello Madar che guardasse la
città con tutti i cittadini ed egli con cinquemila seguì la prima schiera e la
mattina sul far del giorno assalirono il campo e fecero gran danno perché circa
duemila cristiani furono uccisi. Fino al giorno durò la battaglia, combattendo insieme.
e lo misero quasi in rotta, ma lui virilmente li
refrancò.
Nel campo, la notte, non si credette esser stato tanto
male, se non la mattina seguente quando furono trovati tanti morti poniamo che
l’infelicità tornasse in gaudio, eppure il principio fu cattivo per la morte di
duemila cristiani, finendo Arsinio e Silonio nell’aspra battaglia. Il rumore
era grande per tutto il campo, il capitano avendo timore che gente fresca non
fosse entrata in città, ordinò che alle bandiere che si suonasse raccolta e
così fu fatto. Per questo la gente del campo si strinse tutta insieme, a
cavallo e a piedi, e sempre il capitano
Girardo fece ritirare la gente insieme e per questo, la mattina furono bruciati molti alloggi, tra i cristiani si
accese maggior ira per volontà della vittoria in modo che in una comune furia
contro i molti nemici, per la quale non poté Guerrino dare alcun ordine, ma
solamente si raccomandava a Dio e ancora raccomandando a Dio questa gente e,
armato, corse nella battaglia con quella medesima furia e nel giungere molto
adoperò la sua forza. Poco combatté che fu giorno chiaro, allora Guerrino vide
nella battaglia Arsineo, lo assalì con la spada in mano e fendettegli la testa
in mezzo e cadde in terra, il grande rumore si levò e volto il danno verso
quelli di Durazzo, i cristiani infiammati li seguirono verso la terra
mescolandosi con loro e Girardo vide Guerrino in mezzo ai nemici far tanto
danno che era meraviglia e diceva: “Questo è il più franco uomo del mondo e ben
per certo cavaliere di Dio”. In questo punto della grande battaglia da fuori
della città Madar con cinquemila cavalieri cominciò per modo che molti
cristiani fece morire. Guerrino, vedendo la sua gente malmenata, suonò il suo
corno e radunò quattromila cavalieri e con quelli fece una giravolta per la
pianura e percosse alle spalle, ovvero alle coste, la gente di Madar e si
scontrò con lui sì che lo passò con la lancia infino dall’altra parte per la
cui morte le sue bandiere furono gettate per terra e i cristiani ripresero
forza e misero i loro nemici in fuga cacciandoli da ogni lato. Silonio vedendo
la sua gente fuggire gridava aspramente per farli volgere alla battaglia ma a
niente gli valeva gridare. E mentre egli gridava alla sua gente vide che
Girardo e il Pugliese per il campo facevano grande danno. Onde, adirato, prese
una grossa lancia in mano e rimise la
sua spada nel fodero, spronò il suo cavallo e dette a Girardo sì grande colpo
della lancia che aspramente lo abbatté ferito in terra da cavallo. E per questo
i cristiani furono da quella parte molto danneggiati e molto peggio avrebbero
avuto se la voce dei cavalieri non avesse fatto sentire al Meschino il quale,
subito, da quella parte si volse come un dragone e gli dette un sì gran colpo
sopra la spalla destra che gli tagliò parte della spalla e tutto il braccio,
netto, cadde in terra insieme alla spada. Silonio per questo colpo non morì ma
fuggì verso la città, per mezzo di tutti i cavalieri e giunto dentro la città
morì dinanzi a suo padre.
presentati il padre e la madre.
Avendo
veduto i Saraceni fuggire Silonio col braccio tagliato entrò in loro tanta
paura che gettarono tutte le bandiere per terra e tutti cominciarono a fuggire
e i cristiani li seguirono mescolatamente. E Girardo rimesso a cavallo tornò
indietro a disarmarsi, si lasciò medicare la piaga, Meschino era di tanto animo
che tornò alla battaglia, in questo mezzo, avendo messo i nemici in fuga
Guerrino seguiva la traccia; insieme con loro, giunti alla porta, molti
cavalieri smontarono a piedi e per forza presero il ponte della porta.
La
Battaglia era terribile e per forza entrarono dentro con loro, mescolati
insieme alle grida; il suono delle armi
era grande, in questo punto giunse alla
porta Napar, smontò a piedi, assalì il Meschino e gli dette una lancia da mano.
Il Meschino la tagliò e appressati l’un l’altro si dettero certi colpi di
spada. Poi si abbracciarono ancora insieme l’uno con l’altro e il Meschino lo
gettò sotto e vi era tanta moltitudine di nemici che il Meschino sarebbe stato
male se non fosse stato Girardo che giunse, il quale trovando la sua gente per
fuggire gridò, li fece volgere e per forza presero la porta. Il Meschino cavò
l’elmo a Napar gridando che egli si arrendesse ma lui non gli rispose. Il
Meschino col pomo della spada l’uccise. Vistolo morto si levò verso la città
con grande rumore dicendo a quelli della terra dove vivevano i cristiani. E per
questo fu più facile prendere la città di Durazzo e solo in parte fu messa a
fuoco. Presa la piazza montarono, il Meschino e Girardo, sul palazzo maggiore e
le genti della città corsero alla prigioni, le ruppero e dentro fu trovato
Milone, principe di Taranto, padre del
Meschino e sua madre, donna di Milon, la
quale aveva nome Fenisia, vecchia pelosa con molte lacerazioni e in più parti mostrava le carni, mai si vide
cosa più straziante. Quando furono trovati fu domandato da quanto tempo erano
in prigione e loro risposero che era da oltre vent’anni. Fu domandato chi loro
erano. Rispose che egli era Milone principe di Taranto, fratello di Girardo di
Puglia. Sono passati ventitre anni da che si diceva che era morto.
Girardo
disse:
“Menateli
dinanzi a me”.
Così
furono portati nella sala dinanzi a lui e al Meschino.
e la madre, e come provò aver cercato tutte
le parti del mondo.
Quando Milone e Fenisia
giunsero nella sala, Guerrino si era cavato l’elmo. Guerrino appena visti i due
prigionieri, cioè Milone e Fenisia, si cambiò di colore e cominciò a lacrimare.
Girardo lo guardò nel viso e
disse:
“Oh franco capitano perché sei
tu così cambiato di colore?”
Guerrino rispose:
“Oh caro mio signore questi
sono il padre mio e la madre mia. Tu sai che io ti ho detto come li ho cercati
in tutto il mondo, perfino agli alberi del Sole e sono stato alla Sibilla e al
purgatorio di Santo Patrizio e non potei sapere per nome chi fosse il padre
mio. Ho solamente saputo tre cose: la prima, mi dissero gli alberi del Sole che
io ero cristiano, due volte battezzato, la prima volta fui chiamato Guerrino e
la seconda volta Meschino. La seconda cosa fu che la Sibilla mi disse che la
mia balia ebbe nome Seferra, fu di Costantinopoli e fu morta in mare. La terza
mi fu mostrata nel purgatorio di Santo Patrizio: due statue per similitudine e
mi fu detto quando tu vedrai due persone fatte come queste, quelli saranno il
padre tuo e la madre tua. Ognuno di questi mi dissero che essi erano vivi”.
E mentre egli diceva queste cose a Girardo fecero star discosto Milon e la moglie.
Allora Girardo vedendo piangere Guerrino cominciò a piangere con lui e
facendosi aspro il viso ripeté:
“Chi sei tu che dici esser
Milone”?
Milone si volle inginocchiare
ma il Meschino non glielo lasciò fare ed egli disse che era Milon figliolo di
Girardo di Frata, del sangue di Mongrana per discendenza del sangue di
Costantino, che Carlo Magno lo fece cavaliere in Aspromonte, lui e il suo
fratello Girardo, come donò loro la Puglia, la Calabria, il Principato di
Taranto e con lui mosse guerra contro gli Albanesi e prese Durazzo e tolse per
Moglie questa donna sorella di Napar di Madar, come per il tradimento gli fu
tolta la città e furono messi in prigione
e non sò, disse, come io abbia vissuto tanto. Allora domandò
Guerrino se egli avesse mai avuto
figlioli. Milon disse di si, ma credeva che fosse morto quando perdette la
terra, non aveva se non due mesi.
Disse Guerrino:
“Hor come aveva nome”?
Rispose come al battezzare ebbe
Guerrino e non poteva tenere le lacrime.
Ancora da capo disse Guerrino:
“Come aveva nome la balia che
lo teneva in guardia”?
Rispose:
“Fenisia la balia fu quella che
lo aveva allattato lui piccolino, mi fidai di lei, che avesse cura del mio
figliolo, non perché ella gli potesse dare il latte ma per guardia del
fanciullo ed ella lo affidò, a suo modo, ad un’altra balia che era chiamata
Seferra ed era di Costantinopoli”.
Disse Girardo:
“Quanto tempo è che voi foste
messi in prigione”?
Rispose Milone:
“Trentadue anni”.
Guerrino non poté più rimanere
celato, si buttò al collo di suo padre e non notò neppure che fosse tanto
peloso, lo baciò e disse:
“Ohh padre mio, pieno di
fatiche, perché non seppi io fino a Costantinopoli che tu eri mio padre, che io
ti avrei cavato da tanta fatica. Ahh finalmente madre mia e corse verso di lei,
la abbracciò e non vi fu mai allegrezza simile. Girardo abbracciò Milon chiamandolo barba perché fratello di suo
padre e diceva:
“Io ho udito dire da mio padre
che erano passati trenta anni, che suo fratello Milon era morto a Durazzo, e
molte volte avrei voluto vendicarmi ma non era piaciuto a Dio , ma ora si vede
perché a Dio non piaceva fino a quando il suo figliolo non ritornava a trovare
il padre suo”.
Lasciato Milon si volse al
Meschino e lo abbracciò chiamandolo:
“Fratello, perché non ti ho
conosciuto? Questa allegrezza sarebbe grande a mio padre a trovar un suo
fratello e un simile nipote”.
Tutta la gente andava al
palazzo per vedere il padre ed il figliolo.
Molti antichi vennero alla
corte rendendo testimonianza come Seferra
era fuggita col fanciullo e che essi avevano saputo che certi Corsari di
mare l’avevano presa e uccisa, ancora fu riconosciuto il Meschino da molti che
l’avevano visto a Costantinopoli e furono manifesti quei fatti che aveva
compiuto contro il Re Astiladoro per l’imperatore di Castantinopoli e fu grande
allegrezza per la vittoria e maggiore per la ritrovata sanguinità e subito
Girardo prima che si facesse curare ordinò che al padre suo fosse ogni cosa
scritta, per ordine.
Il Meschino subito scrisse a Costantinopoli ad
Alessandro e scrisse in Persia alla città di Presepoli alla bella Antinisca,
facendole segretamente sapere che era vivo e aveva ritrovato suo padre, e
scrisse in Babilonia e in Barbaria
per far
fede che era stato in tutte le parti che diceva.
Ancora scrisse nella Morea e in Inghilterra
a Dinoino e in poco tempo furono
verificate le sue parole per
aver cercato veramente
quasi tutto il mondo
per trovare la
sua genera-
zione.
LIBRO
DETTO IL MESCHINO
LIBRO SETTIMO
Dove si tratta come Milon riebbe il principato
di Taranto
e come cacciarono i turchi
di Grecia e rimase del tutto si-
gnore Alessandro.
Capitolo 201
e fu fatto duca di Durazzo.
Capitolo 202
Come il Meschino assalì i Turchi e prese Artibano
il quale battezzò.
Capitolo 203
Come il Meschino e Girardo col campo entrarono in
Tessaglia
e come il Re Astiladoro ed i figlioli col campo
dei turchi gli vennero addosso.
Capitolo 240 (204?)
ultimamente furono cacciati i Cristiani dentro di
Antinopoli.
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